La cecità di José Saramago: l’incubo dell’egoismo umano

Quando nel 1995 dà alle stampe Cecità, il premio Nobel per la letteratura José Saramago non poteva pensare all’epidemia che ventiquattr’anni dopo avrebbe sconvolto il mondo. Non arriverà neanche a sfiorarla, quando nel 2010 ci lascia con un trattato profetico sulla natura umana allo stato di necessità.
Il dissidente e geniale autore portoghese, figlio di un’umile famiglia di braccianti agricoli, si distingue per la spiccata sensibilità nel delineare, partendo dal basso, i più feroci istinti dell’essere umano e la sua incapacità di darsi regole eque e rispettarle. Non a caso, Saramago fu sempre critico rispetto alle democrazie e acerrimo oppositore della globalizzazione, tratto che nelle sue opere si traduce in un disordine organizzativo dalle conseguenze funeste.
Cecità è un’opera emblematica della sua poetica che oggi, a seguito dell’epidemia mondiale, non può che farci riflettere sulla differenza che c’è tra un organismo e un’organizzazione. Il primo, meccanismo perfetto insito nella natura degli insetti, che li guida verso comportamenti funzionali a uno scopo comune; la seconda, compromesso tra l’istinto all’agire individuale e la necessità di collaborare con gli altri, caratteristica dell’essere umano.
La cecità è comunemente indicata come perdita, totale o parziale, di una delle facoltà primarie: la vista. Questa mancanza può essere congenita, quindi presente fin dalla nascita, oppure acquisita, quando un individuo perde la vista a causa di successive patologie.
Ma che succede se la cecità arriva da un momento all’altro e senza una causa apparente? Se a perdere l’uso degli occhi, dei nostri preziosi occhi, non ci fosse nessuna malattia, nessun difetto? E se nel perdere la vista non piombassimo nell’oscurità, nel buio, nelle tenebre, bensì fossimo avvolti dalla luce, da un chiarore splendente, da un mare di latte?
La cecità di Saramago è concreta e reale, ma anche allegoria dell’ottenebramento mentale che impedisce all’individuo di vedere oltre se stesso, in un perenne stato di capovolgimento del punto di osservazione che, anziché estendersi fuori dalla persona, si avvolge al suo interno e sancisce l’incomunicabilità con il mondo e con i propri simili.

L’umanità divisa tra terrore e disgusto
In un posto qualunque, in una città qualunque, in una strada qualunque, un tizio, in una macchina qualunque, diventa cieco. Disperato, angosciato, scoraggiato, dopo essere stato accompagnato a casa da un uomo, aspetta sua moglie per essere scortato da un oculista. Da questo momento inizia l’apocalisse.
Nello studio del medico ci sono altre persone: la ragazza dagli occhiali scuri, il bambino strabico, il vecchio con la benda nera. Nessuno ha un nome, tutti sono precari, insicuri e l’instabilità sta per entrare definitivamente nella loro vita. Uno alla volta, cadono tutti in un mare di latte.
Una sola persona appare immune al contagio, una donna, la moglie del medico, che diventa l’unica testimone, l’unica vedente di ciò che gli altri non sono più: esseri umani. Ma lei? Riuscirà a essere immune alla violenza, bestiale e feroce, all’orrore di cui i ciechi si macchiano?
All’inizio i primi contagiati vengono rinchiusi dal Governo in un ex manicomio. Qui, a poco a poco, la situazione degenera. Morti sparati dai soldati che presidiano il luogo, sudiciume sparso ovunque, ciechi malvagi che, muniti di una sola pistola, riescono sia a fare la cernita del cibo, sia a vessare le donne con stupri di massa. Fino alla ribellione: la moglie del medico sgozza l’uomo armato e una cieca ne incendia la camerata.
I sei ciechi, il medico e quelli che stavano nel suo studio, e la moglie del medico riescono a uscire indenni dal manicomio in fiamme. Sembrerebbe la fine e invece non è che l’inizio.

Il mondo quando nessuno lo vede
Fuori, per le strade della città, ci sono veicoli fermi, spazzatura, lerciume, negozi che sembrano aperti ma altro non sono che ripari per disperati. I sette scampati vagano, passano per alcune delle loro case, finiscono per occupare quella del medico e di sua moglie. È sempre lei che va alla ricerca di cibo fin quando, sconvolta per aver intravisto dei cadaveri, si fa accompagnare dal marito nei pressi di una chiesa. Qui anche le statue di Cristo e dei santi sono bendate e cieche.
José Saramago non racconta una storia specifica, bensì ciò che potrebbe succedere ovunque, a chiunque, in qualsiasi momento. Si libera di tutto il superfluo: i nomi dei protagonisti, i due punti e le virgolette. L’essere umano privato della vista diventa cieco di fronte ai propri simili, ai sentimenti, alla vita associata che lo caratterizza quando, nel pieno delle proprie facoltà, è invece in grado di collaborare per il bene comune. Ridotto a relitto, lascia emergere tutto l’egoismo che l’istinto di sopravvivenza richiede per non soccombere in un mondo arido.
L’unica speranza è riposta in chi, con gli occhi ancora sul mondo, è in grado di attribuire un valore alla vita umana, e si batte per preservarne la dignità.
A cura di
Sara Bernardini