Yasmina Reza e il fantasma della crudeltà nella sua sconfinata delicatezza
«La passione, il dolore, sono elementi che contengono un po’ di Assoluto, e fanno sì che ci sia qualcosa di più dell’io di tutti i giorni». Yasmina Reza, Entretien avec Catherine Argand, settembre 1999.
Yasmina Reza nasce a Parigi nel 1959, da padre iraniano e madre ungherese, entrambi di origine ebraica. Scrittrice, sceneggiatrice, attrice. A ventisette anni vince il premio Molière con la sua prima opera teatrale Conversations après un enterrement (il testo non è stato ancora tradotto a causa di alterne vicende editoriali). Raggiunge il successo internazionale grazie ad Arte, diventando la drammaturga più rappresentata al mondo. Autrice anche di romanzi e racconti autobiografici, Reza mette in scena la spietata precarietà dei rapporti umani: gli osceni equilibri familiari – sempre così pericolosamente in bilico – e i delicati meccanismi che governano l’universo degli amanti. Più in generale, è la progressiva disintegrazione umana che viene raccontata, qualcosa che ricorda molto da vicino i romanzi di Fitzgerald.
Tuttavia, l’opera della scrittrice francese non c’entra nulla con il ‘teatro della crudeltà’. Con questa espressione Artaud intendeva l’anarchia di un linguaggio ridotto a brandelli. La scrittura di Reza è tutt’altro che crudele, è anzi un esercizio artistico raffinatissimo che scandaglia con estrema intelligenza le più minute sfumature dell’animo umano, elemento che la apparenta a ben altra tradizione letteraria. In particolare, a quella linea di discendenza – niente affatto invisibile – che collega Proust e Flaubert ai grandi moralisti francesi (Pascal, Descartes, La Bruyère ecc…). Crudele semmai è la materia trattata, maneggiata però con la sconfinata delicatezza dell’artigiano in possesso di una sensibilità fuori dal comune.
Di certi ritratti familiari
«Tutte le famiglie felici sono uguali, ogni famiglia infelice è infelice a modo suo».
È innegabile che esistano famiglie, in certi ritratti romanzeschi e cinematografici, che riescono a penetrare tanto a fondo nella nostra immaginazione da diventare figure vive. Esseri fittizi che sembrano volerci spalancare le porte di casa invitandoci a varcare l’uscio: esitiamo, ci sporgiamo timidamente; in seguito, preso un po’ di coraggio, decidiamo di addentrarci, ma sempre con una certa prudenza, giacché siamo solo ospiti. Alla fine, ci richiamano a sé, adottandoci senza troppi trionfalismi. Non accade spesso di leggere un romanzo (o guardare un film) e sentire questo profondo senso di appartenenza. Tra le poche famiglie fittizie si possono ricordare con infinita dolcezza i Tenembaum, campioni assoluti delle famiglie disfunzionali, e con enorme nostalgia i Rostov di Guerra e Pace – facile cadere in una infatuazione adolescenziale per Nataša.
Uno dei grandi misteri della mente di veri maniaci della lettura – quelli che vanno a dormire giocando con le immagini appena lette, che modificano di continuo le scene viste, che rimpastano la narrazione (chi non ha mai fantasticato di salvare Anna Karenina dal suo tragico destino) che aggiungono dei pezzi eliminandone altri – è quella di dimenticare fatalmente la versione originale, confondendo col tempo ciò che è stato scritto con ciò che è stato sognato. Enrico Guaraldo, professore universitario ormai scomparso che ha segnato la vita di molti studenti, amava dire: «è solo così che sappiamo di aver assimilato davvero un romanzo». È ironico che l’unico modo per capire veramente un’opera sia dimenticarla, ma solo grazie a questo esercizio di fanatismo intellettuale riusciamo a invischiarci senza posa nelle trame delle relazioni romanzesche. È quello che è accaduto con Serge.
Serge
Yasmina Reza riesce con il suo ultimo romanzo a creare un meraviglioso microcosmo familiare, uno di quelli alla Wes Anderson per intenderci, e lo fa mettendo a nudo tutte quelle volgarità nevrotiche che tanto ci fanno vergognare delle nostre famiglie. Inconfessabili eppure così insospettabilmente comuni, ecco perché ci pensano gli scrittori (avere uno scrittore in famiglia dev’essere una sorta di maledizione, c’è sempre il rischio che prima o poi la faccia a pezzi).
Nella galleria di questa “sgangherata baracca” della famiglia Popper, troviamo il Serge del titolo, lo zio scorbutico, il classico narcisista passivo aggressivo fastidiosamente seducente, Nana la zia progressista dell’ultimo minuto, fin troppo tardivamente votata al sociale, e Jean – narratore di questo racconto – il fratello di mezzo costretto continuamente a mediare tra il conservatorismo sarcastico dell’uno e il moralismo petulante dell’altra. Tutti e tre meravigliosamente impigliati nel groviglio dei propri naufragi esistenziali, e al contempo, tra loro eccezionalmente solerti nel ricordarsi a vicenda la misura esatta dei propri fallimenti. Un intreccio conflittuale che non risparmia pure nipoti, mariti e amanti, in un accumulo di tensioni, neanche troppo sotterranee, pronte ad esplodere l’indomani della visita ad Auschwitz, tappa fondamentale – secondo la nipote Joséphine – per una famiglia di origine ebraica.
Quello che ci racconta Reza, tra le altre cose, è il fallimento della memoria collettiva, la colossale bugia delle ‘radici’ che non ci salvano affatto dallo sfacimento del tempo (e del presente). Nessun appiglio a cui aggrapparsi può arrivare da un passato collettivo che non irradia alcuna eco nella sfera privata. Senza un vero futuro che li attende, se non il lento decadimento della vecchiaia, e senza un passato comune a cui guardare, questi esseri sradicati vivono barcamenandosi nel miasma della realtà che li circonda.
La domanda da porre a Yasmina Reza è d’obbligo: cosa salva questa famiglia, come ci si salva? Il finale di Serge sembra eloquente: attraverso il ricorso alla memoria affettiva, l’unica dimensione reale che custodisce le vestigia di ciò che fummo, che ci costringe a ripercorrere le tappe di un’identità che si è smarrita nel tempo tra le incombenze dell’esistenza; e attraverso il filo sottile dei ricordi quotidiani, riconoscerci infine per quello che siamo veramente: famiglia.
A cura di Alessio Rischia