Machiavelli al Vittoriano di Roma
Numerose sono le edizioni del PRINCIPE di Niccolò Machiavelli, come straordinaria diffusione nel corso dei secoli e nei diversi ambiti culturali, si apprezza il valore storico-documentario di molti esemplari. Se ne sono conservati 19 codici, ed è a partire dall’analisi sistematica di questi manoscritti che in anni recenti Inglese e Marteni hanno realizzato le rispettive edizioni critico-filologiche del PRINCIPE. Secondo alcuni M. lo scrisse solo per ingraziarsi i Medici, secondo altri ha distillato le sue conoscenze politiche con il suo pessimismo. Altri ancora pensano che sia la sua risposta storica di come sia possibile interrompere il declino di una repubblica corrotta e divisa in fazioni. Machiavelli ha prestato attenzione alle questioni militari. Critico verso il ricorso alle truppe mercenarie e ai capitani di ventura, pronti a vendersi al miglior offerente, era a suo giudizio, una delle cause di debolezza politica degli stati italiani dell’epoca a partire da Firenze. E dal capitolo XII al XIV è dedicato tutto ciò. Questi temi sono stati sviluppati sul piano teorico e tecnico su: L’ARTE DELLA GUERRA pubblicato nel 1521, ma lo hanno visto impegnato come segretario della II Cancelleria. Molti dei documenti derivano dalla collezione di Luigi Firpo (1915-1989), docente all’Università di Torino, che ha conservato le edizioni a stampa del PRINCIPE esposte in questa sezione della Mostra.
La I edizione a stampa del PRINCIPE e dei DISCORSI vengono pubblicati subito dopo la sua morte col privilegio papale, e questo gli conferisce fama fuori dai confini italiani. Le cose cambiano a metà del Cinquecento. La lotta protestante si accompagna anche alla polemica contro la lingua volgare. Viene bandito poi come eretico e blasfemo da Paolo IV nell’INDICE DEI LIBRI E DEGLI AUTORI PROIBITI. Sebbene ufficialmente ridotto alla clandestinità, nonostante il diffondersi di una letteratura controriformistica della fine del XVI secolo, la sua fama non fa che crescere e consolidarsi a dispetto di ogni censura o condanna. Il PRINCIPE viene stampato per la prima volta nel 1532 in Italia, in Francia nel 1546, come manoscritto , tra Settecento e Ottocento in Germania nel 1714. Si arriverà fino al 1900 a pubblicarlo in versione integrale. È oggi presente in quasi tutti i paesi del mondo. Non esiste uomo politico o pensatore ( da A. Gramsci a B. Croce, a F. Chabod) che non conosca l’opuscolo machiavelliano. Machiavelli ha avuto rapporti con la cultura classica, soprattutto con gli storici greci e latini, anche se scrisse in volgare. I continui riferimenti anche alla Roma antica denotano un’ammirazione da parte della Roma Repubblicana le cui vicende vengono da lui considerate una fonte inesauribile di esempi e di insegnamenti validi per tutti i tempi.
Con il M. inizia una nuova epoca del pensiero politico: l’indagine proprio politica tende a staccarsi dal pensiero speculativo, etico e religioso, assumendo come canone metodologico il principio della specificità del proprio oggetto che deve essere studiato autonomamente. La posizione di M. può anche riassumersi con la formula: “la politica per la politica”. I punti su cui è necessario fissare l’attenzione sono: il realismo politico, cui è congiunta una forte vena di pessimismo antropologico; il nuovo concetto di Virtù del Principe che deve governare efficacemente lo stato. ; infine la tematica del ritorno ai principi, come condizione di rigenerazione e di rinnovamento della vita politica. Essenziale, nel Capitolo XV del Principe, Machiavelli esprime il concetto secondo il quale il Principe deve perseguire la verità effettuale delle cose. Egli giunge addirittura a dire che il sovrano può trovarsi in condizione di dover applicare metodi estremamente crudeli, ma quando tali metodi sono necessari a mali estremi, egli deve adottare tali rimedi estremi, ed evitare la via di mezzo, che è la via del compromesso. Si legge: “Qualunque diventa Principe, il megliore rimedio ch’egli abbia a tenere quel principato è fare ogni cosa in quello stato di nuovo”.
Di per se, secondo Machiavelli, l’uomo non è ne buono, ne cattivo, ma di fatto ha una spiccata propensione ad essere cattivo. Pertanto il politico non può fare affidamento sull’aspetto positivo dell’uomo, ma deve piuttosto prendere atto del prevalente aspetto negativo, e agire in maniera conseguente. Non dovrà, dunque, avere esitazioni a farsi tenere e a prendere le misure occorrenti per rendersi temibile. Certo, l’ideale supremo per un Principe, sarebbe quello di essere e amato e temuto; ma le due cose sono difficilmente conciliabili. Le doti del principe sono chiamate da M. “virtù”, in ragione che opera in funzione del bene. In particolare essa ricorda il concetto di “arethè” che avevano in modo particolare alcuni dei primi Sofisti. Luigi Firpo l’ha descritto molto bene: “Virtù è vigore e salute, astuzia ed energia, capacità di pianificare, di costringere: è soprattutto volontà che fa argine alla piena straripante degli eventi che da regola al caos, che costruisce con invicta tenacia l’ordine entro un mondo che frana che si disgrega.” Ma quella forza si giustificava in vista della salvezza dei buoni e grazie alla divina investitura dei sovrani, fatti strumento di una severità moralizzatrice. Qui invece è la massa intera degli uomini che affonda nell’ottusa malvagità e la virtù stessa , che dà e giustifica il potere, non ha nulla di sacro perché costringe ed edifica , ma non educa e non redime”. Nel capitolo VI del Principe M. espone: “Debbe un uomo prudente intrare sempre per vie battute da uomini grandi e quelli che sono stati eccellentissimi imitare, acciocchè se la sua virtù non vi arriva almeno ne renda qualche odore; dico dunque che ne Principati tutti nuovi, dove sia uno nuovo Principe, si truova a mantenerli più o meno difficultà. E perché questo evento di diventare di privato Principe, presuppone o virtù o fortuna, pare che l’una o l’altra di queste dua cose mitighi in parte di molte difficultà.
Genera ancora facilità essere e Principe costretto , per non avere altri stati venire personalmente ad arbitrarvi.” Dunque questa vista virtù sa contrapporsi alla fortuna. Torna, così, in Machaivelli, il tema del contrasto tra libertà e fortuna , tanto caro agli Umanisti. Ma la sua soluzione è che per metà le cose umane dipendono dalla sorte, per l’altra metà dalla virtù e dalla libertà. Infatti lo stesso sosteneva: “Perché la fortuna è donna et è necessario batterla et urtarla. E si vede che la si lascia più vincere da questi (dai temperamenti impetuosi) , che da quelli che freddamente procedono. E però sempre, come donna, è amica dei giovani, perché sono meno rispettivi, più feroci e con più audacia la comandano.” L’ideale politico di M. non è però il Principe da lui descritto, bensì, come si è già accennato, quello della repubblica Romana. E, descrivendo questa Repubblica, egli sembra piegare in senso nuovo il suo stesso concetto di virtù, in particolare quando discute l’antica questione se il popolo romano nel conquistare il suo impero sia stato favorito dalla fortuna più che dalla virtù, e risponde dimostrando “ quanto possa la virtù più che la fortuna loro ad acquistare quello imperio”. Ciò che si comprende da tutta la Mostra e da tutte le varie critiche del Principe è che poi, in fondo la tesi Machiavelliana non fu proprio l’unica del “fine giustifica i mezzi”a sostenere tutto il suo impianto politico e storico.
Michela Gabrielli
21 maggio 2013