Perquisire il cellulare altrui è reato, parola della Cassazione
ROMA — Siete talmente gelosi che non riuscite proprio a trattenervi dall’andare a sbirciare nel cellulare del vostro partner? Sappiate che da oggi questa gelosia potrebbe costarvi cara.
A stabilirlo la Cassazione che ritiene la sottrazione del cellulare al legittimo proprietario un reato. Si, un reato come lo è una rapina. Secondo i supremi giudici la finalità di sottrarre un cellulare per perquisirne il ‘contenuto’ “integra pienamente il requisito dell’ingiustizia del prodotto morale”.
La Cassazione ha sottolineato che “l’instaurazione di una relazione sentimentale fra due persone appartiene alla sfera della libertà e rientra nel diritto inviolabile all’autodeterminazione fondato sull’articolo 2 della Costituzione, dal momento che non può darsi una piena ed effettiva garanzia dei diritti inviolabili dell’uomo (e della donna) senza che sia rispettata la sua libertà di autodeterminazione”. Per la Suprema Corte, “la libertà di autodeterminazione nella sfera sessuale comporta la libertà di intraprendere relazioni sentimentali e di porvi termine” e per questo nessuno deve avere “la pretesa” di “perquisire” i cellulari altrui, nemmeno degli ex partner, ovviamente, al solo fine di “prendere cognizione dei messaggi che la persona offesa abbia ricevuto da altro soggetto”.
A farne le ‘spese’ è stato un 24enne di Barletta, Pasquale C.. Il ragazzo, che si era impossessato del cellulare della ex fidanzata solo per “far conoscere al padre di lei gli sms che la ragazza riceveva da un altro uomo – e quindi per metterlo a conoscenza dei tradimenti della figlia”, è stato condannato per rapina. Ma non finisce qua. A questo reato gli si aggiunge una condanna per tentata violenza privata, violazione di domicilio e lesioni personali, in quanto il 24enne aveva sottratto il telefonino alla sua ex strattonandola ed entrando di forza in casa sua. Conclusione? Due anni e due mesi di reclusione e 600 euro di multa.
Il ragazzo successivamente ha anche provato a fare ricorso perché secondo la sua difesa il gesto dell’imputato era prettamente di “utilità morale”. La Suprema Corte però non lo ha accettato ed ha inoltre precisato che “nel delitto di rapina sussiste l’ingiustizia del profitto quando l’agente, impossessandosi di cosa altrui (nella specie un telefonino), persegua esclusivamente un’utilità morale, consistente nel prendere cognizione dei messaggi che la persona offesa abbia ricevuto da altro soggetto, trattandosi di finalità antigiuridica in quanto, violando il diritto alla riservatezza, incide sul bene primario dell’autodeterminazione della persona nella sfera delle relazioni umane”.
Allora, ne vale davvero la ‘pena’ non riuscire a tenere a bada i nostra sospetti?
Marica Valentini
20 marzo 2015