Mamma di Loris: i detenuti del carcere di Catania urlano «Assassina devi morire». Lei continua a ripetere «non ho ucciso mio figlio»
CATANIA — Prima notte nel carcere di Piazza Lanza a Catania per Veronica Panarello. L’accusa è una delle più pesanti per una madre: omicidio aggravato e occultamento di cadavere del proprio figlio. Per i PM di Ragusa sarebbe responsabile dell’omicidio di Loris «con modalità di elevata efferatezza e sorprendente cinismo», provocando la morte «aggredendolo mediante azione di strangolamento portata con l’uso di una fascetta stringicavo di plastica», indicando nel decreto di fermo «gravi indizi di colpevolezza» nei suoi confronti, contestandogli anche l’aggravante della crudeltà oltre che del vincolo di parentela.
Lei continua a dichiararsi innocente ma il verdetto delle centinaia di persone che attendevano fuori e quello dei detenuti della casa circondariale di Catania sembra ormai deciso: «Vergogna! Vergogna!» e «Assassina, devi morire». Fischi ed urla in questa gogna mediatica che rende tutti giudici degli altri. La Giustizia sta facendo il suo corso, e al di là di ogni giudizio morale e di ogni evidenza, con gli indizi e le contraddizioni via via a stringere il cappio intorno a questa donna, è bene ricordare che queste sono accuse e non è ancora una condanna. Ora Veronica vuole solo «stare sola», non si può sapere se per sostenere il peso di una terrificante colpa commessa o di un terrificante torto subito. Lei piange, un pianto pacato, come pacato e remissivo è stato il suo atteggiamento durante le sei ore di interrogatorio della scorsa notte condotto con gli occhi bassi come il tono della voce. «Non sono stata io, non l’ho ucciso io, lui era il mio bambino», ma per chi conduce le indagini la versione e le dichiarazioni della madre «confliggono palesemente con le risultanze delle registrazioni degli impianti di video sorveglianza installati lungo l’effettivo percorso seguito dalla Panarello», documentando «oltre ogni ragionevole dubbio» che: Loris è rientrato in casa alle 8:32, un minuto dopo essere sceso con la mamma e il fratellino, e non è più uscito; che «nell’intervallo tra le 8:49 e le 9:23 di sabato» nessuna persona sconosciuta entra nell’abitazione. Riscontri che non tornano e bugie che come un boomerang si stanno ritorcendo contro, come l’aver detto di non conoscere il Mulino Vecchio, luogo di ritrovamento del figlio, quando invece proprio a cinquanta metri da quel luogo c’era una fontana dove da piccola andava a prendere l’acqua, abitando con la famiglia a meno di due chilometri da quel punto, come rilevato da una intercettazione telefonica della sorella con la madre. Ma Veronica continua a sostenere di non esserci mai stata, con le parole dell’avvocato Francesco Villardita a sostenere che «la mia assistita è estranea ai fatti che le vengono contestati e anche oggi ha ripetuto sempre la stessa versione. E dunque è serena», una serenità difficile da immaginare. L’avvocato continua dicendo che «si è sottoposta spontaneamente ad un prelievo del DNA, attraverso un tampone salivare» e che non è vero che Loris sia tornato in casa invece di salire in macchina perché «dal filmato visionato con la mia assistita non si riconosce nessuno. E abbiamo prove testimoniali che dimostrano che il bambino è stato accompagnato a scuola», riferendosi alle dichiarazioni di una vigilessa ritenute però «altamente contraddittorie» dalla Procura. Ora si aspetta la valutazione del GIP nell’udienza di convalida del fermo.
Un omicidio che per il momento non ha movente, venticinque pagine di provvedimento di fermo senza mai fare riferimento una volta al perché Veronica avrebbe ucciso in modo efferato il figlio, per poi abbandonarlo nel canalone di cemento forse ancora in vita.
Tra tutti i commenti, da quelli dei famigliari addolorati e scossi, alle persone incredule per un gesto incomprensibile, una voce, quella di Giovanna Campo, Dirigente della scuola «Falcone-Borsellino» frequentata da Loris, a ricordare il dramma di questo momento con parole equilibrate, pur piene di sofferenza per un fatto che lascia sgomenti: «I ragazzi avevano voglia di parlare, ognuno ha dato la propria versione dell’accaduto, con una ricostruzione personale. Li ho invitati alla prudenza come è doveroso, spiegando loro la differenza tra fatto certo ed ipotesi. (…) Il problema siamo noi grandi che non siamo in grado di dare certezze e soprattutto trattenere le emozioni, l’emozione traspare anche perché in questo momento è ancora tanta e c’è grande dolore». Per questo motivo quattro psicologi dell’Azienda Sanitaria Provinciale sono intervenuti per incontrare docenti e ragazzi, «perché noi abbiamo bisogno di capire come parlare agli alunni», come si fa «a spiegare che una madre può uccidere un figlio? Siamo senza parole».
Paola Mattavelli
10 dicembre 2014