Non chiamatelo «gioco»! Milano: ragazza con il setto nasale fratturato dal violento colpo di un vigliacco

MILANO — Un fatto di cronaca, una ragazza aggredita alle 21:00 di un lunedì di due settimane fa. La città è Milano, la zona quella di Piazzale Loreto, ma potrebbe essere una qualunque città, italiana e non. In quell’orario le strade e i marciapiedi non sono ancora deserti. La metropolitana a due passi, molti i taxi in attesa, altrettante le telecamere attive. Un atto semplice, come il rientro a casa o un’uscita serale, si possono trasformare in un incubo e sfiorare la tragedia. Mentre si cammina ecco arrivare un colpo a tradimento, di una violenza inaudita, amplificata dal fatto che si è inermi e inconsapevoli. La ragazza in questione, trentenne, non ha nemmeno il tempo di accorgersi e capire che quell’ombra fugace sta puntando verso di lei per frantumarle il setto nasale. Si ritrova prima a terra, stordita, e poi all’ospedale. E si ringrazia forse il cielo che non sia andata peggio, come è capitato ad altre persone, morte per quello che sembra un assurdo rituale. Non è una rapina, nulla viene toccato e sottratto. E in quella manciata di secondi, dove il tempo acquista un peso differente, la ragazza non riconosce nell’aggressore un volto conosciuto. È un’insensata roulette russa umana ma è ingiusto chiamarlo «gioco», mutuando il nome di questo atto criminale dall’America dove è conosciuto come «knockout game», Paese nel quale ha preso piede prima di essere «esportato» come tante altre odiose vigliaccate che usano la vita altrui come se si fosse dentro lo schermo di un videogame.
Ma questo non ha nulla di virtuale, è fatto di ossa frantumate, sangue e urla. E di paura, tanta paura di uscire per strada, quel panico che continua a far male anche quando le ferite si sono rimarginate, le contusioni e i lividi riassorbiti, il naso rotto sistemato. E il fatto che lentamente dilaghi, che diventi virale perché molte volte qualche amico riprende la scena come fosse un trofeo da esibire, non legittima un’azione alla quale non ci si deve abituare, che è ignobile e primitiva, priva di coscienza. Quella coscienza umana che dovrebbe distinguere l’uomo dalla bestia ma che mancando fa retrocedere il genere umano ad un inferno, un luogo dove non c’è limite, dove tutto è possibile, compresa la minima idiozia che passa per la testa del singolo. Si diventa dei birilli in attesa di essere travolti da una palla a folle velocità o schivati nell’illogica giostra del caso e della fortuna. «Mi fa male il mondo» cantava Giorgio Gaber ma quel lungo monologo trova la chiusura in queste parole: «Bisogna assolutamente trovare il coraggio di abbandonare i nostri miseri egoismi, e cercare un nuovo slancio collettivo, magari scaturito proprio dalle cose che ci fanno male, dai disagi quotidiani, dalle insofferenze comuni, dal nostro rifiuto. Perché un uomo solo, che grida il suo no, è un pazzo, milioni di uomini che gridano lo stesso no, avrebbero la possibilità di cambiare veramente il mondo».
Paola Mattavelli
31 ottobre 2014