Sono tornato | Mussolini: attenti a…noi

“Vedo una vecchia signora, coi capelli ritinti, tutti unti non si sa di qual orribile manteca, e poi tutta goffamente imbellettata e parata d’abiti giovanili. Mi metto a ridere. “Avverto” che quella vecchia signora è il contrario di ciò che una rispettabile signora dovrebbe essere. Posso così, a prima giunta e superficialmente, arrestarmi a questa espressione comica…. Ma se ora interviene in me la riflessione, e mi suggerisce che quella vecchia signora non prova forse piacere a pararsi così come un pappagallo, ma che forse ne soffre e lo fa soltanto perché pietosamente, s’inganna che, parata così, nascondendo le rughe e le canizie, riesca a trattenere a sé l’amore del marito molto più giovane di lei, ecco che io non posso più riderne come prima, perché appunto la riflessione, lavorando in me, mi ha fatto andar oltre a quel primo avvertimento, o piuttosto, più addentro: da quel primo avvertimento del contrario mi ha fatto passare a questo sentimento del contrario”.
Quanto scritto è la sintesi del manifesto pirandelliano sul concetto di grottesco. Ed è quanto mai il grottesco, come il surreale, a dettare i tempi e le chiavi di lettura dell’ultima fatica di Luca Miniero. Il regista partenopeo, a suo agio con i remake e con la moderna commedia italiana, vedi Benvenuti a Sud, aumenta la posta in gioco, portando alla luce la versione nostrana del già celebre Lui è tornato, diretto da David Wnendt, a sua volta tratto dall’omonimo romanzo del tedesco Timur Vermes. A ognuno il suo dittatore. Nel titolo originale era Adolf Hitler a risvegliarsi in una Berlino moderna, confuso e spaesato; in quello di Miniero è il duce Benito Mussolini a ritornare nel mondo dei vivi, catapultato in Piazza Vittorio Emanuele III, ai piedi della Porta Magica. La scelta della location fa rabbrividire per quanto sia perfetta, sia dal punto di vista storico che esoterico.
Con ancora la corda ai piedi, per mezzo della quale era stato appeso in Piazzale Loreto nel lontano 1945, Mussolini (Massimo Popolizio) vaga per le strade di Roma, disorientato dalla deriva che il paese ha preso in seguito alla sua dipartita. Il numero di stranieri provenienti dal continente africano fa ipotizzare che l’Abissinia si sia rivoltata contro il regime e che la guerra sia stata persa. Una volta accettata la realtà di trovarsi nella capitale dopo più di settant’anni, egli decide che è tempo di riprendersi ciò che gli appartiene e lo fa con l’ausilio dell’aspirante regista Andrea Canaletti (Frank Matano), che lo introdurrà nel mondo dei media e della televisione moderna, convinto che sia un attore un po’ troppo nel personaggio. Naturalmente la realtà e la reazione del popolo italiano andranno oltre ogni aspettativa.
Questo prodotto è avvolto da un telo di surrealismo che va ben oltre la macchina da presa e che si ritaglia involontariamente in uno dei periodi più delicati nella storia della repubblica. Il film uscirà il primo febbraio, praticamente a cavallo tra il giorno della memoria e le elezioni del 4 marzo, in un clima politicamente teso come non si vedeva ormai da decenni. I timori su Sono tornato erano diversi e tutti abbondantemente giustificati, visti i tempi che corrono. Si è temuto fino all’ultimo che questo film potesse essere una rivisitazione quasi macchiettistica di quello tedesco, un annullamento voluto della figura storica del duce, causato dal galoppante perbenismo e politically correct. Per altri invece il timore era che questo film potesse rappresentare una potente arma di propaganda e di apologia.
La risposta? Questo film non è nell’una né l’altra cosa. Con somma soddisfazione la sceneggiatura di Miniero e Nicola Guaglianone (Lo chiamavano Jeeg Robot) non parteggia né a sinistra né a destra; non discolpa né esalta Mussolini, molto semplicemente perché questo film non parla di Mussolini. Il duce è un escamotage, l’alibi perfetto per disegnare naturalisticamente un quadro sociale tutto italiano. Il film punta ad analizzare quasi psicologicamente il pensiero del cittadino comune, della sua preparazione culturale e di come si rapporta dinanzi alla storia. Ciò che ne viene fuori è il grottesco. Popolizio, esaltato nel suo ruolo, si aggira per le strade di tutta Italia, raccogliendo testimonianze vere di chi, ignaro del prodotto cinematografico in lavorazione, si abbandona dapprima alla risata, alla battuta, accompagnata dal classico selfie e poi trasmigra tutto in una vera seduta terapeutica. I cittadini raccontano il proprio disappunto verso la classe dirigente attuale, incapace di gestire un paese che secondo l’opinione di molti sta perdendo la propria identità e i proprio valori. Mussolini lancia piccole esche alle quali tutti abboccano: titilla la pancia del popolo e il popolo risponde. Il duce scopre il magico mondo di internet e della tv, divenuta in sua assenza un ammasso di ciarpame, dove la massima ambizione del giovane italiano è quello di diventare cuoco, mentre perde di vista la propria esistenza con un occhio alla televisione e uno fisso sullo smartphone. Su quest’ultimo aspetto la sceneggiatura affonda le unghie con maggior vigore rispetto a quella tedesca, in cui la tv era semplicemente un mezzo che permettesse al führer dire la sua. Qui invece la questione media è ancora più delicata e complessa.
L’intera macchina politica e i suoi passeggieri si muovono grazie al potere del salotto televisivo, la vera dittatura dell’Italia moderna. All’inevitabile domanda cosa accadrebbe se realmente tornasse Mussolini? Il regista risponde che con ogni probabilità salirebbe al potere, ma se non dovesse funzionare la tv e i giornalisti stessi lo farebbero cadere nel giro di due anni. Sono tornato è pregno di un pragmatismo sociopolitico presente solo in parte nel film tedesco, più metafisico e filosofico. Questo avviene perché a differenza nostra, il popolo germanico ha fatto i conti con la storia ed è stata tutt’altro che clemente con il suo dittatore e il movimento nazionalsocialista, lì divenuto un vero tabù. In Italia abbiamo perso la memoria e di generazione in generazione abbiamo quasi sminuito la figura storica di Benito Mussolini, considerato quasi come un cattivo minore. Su questa corrente di pensiero il protagonista cavalca l’onda delle prime serate, accalappiando le masse con discorsi saturi di aggressività e carisma.
Il duce attacca su ogni fronte: immigrazione, disoccupazione, economia, calo demografico. Mussolini diventa il simbolo del populismo dilagante, senza d’altro canto proporre una qualsivoglia soluzione a tutti gli argomenti esposti; ma tanto basta per sobillare e ottenere il consenso del popolo sovrano. Il film veleggia in un mare tragicomico nella sua quasi totalità, con situazioni irriverenti e simpatiche, che strappano sorrisi e consensi. Infine però, lo schiaffo ci viene dato da chi non ti aspetti. Sarà la nonnina malata di Alzheimer (Ariella Reggio), fino a quel momento alienata nella sua malattia e protagonista di simpatici siparietti, ad essere la più lucida. Si trova per puro caso a fissare negli occhi dell’uomo considerato da tutti un attore, un comico, mentre la sua memoria travalica l’ostacolo della malattia, portando sulle labbra e nella sua voce la tragedia subita da piccola per mano del dittatore, in quanto ebrea. Una scena dalla carica emotiva abnorme, trasmessa con passione e animo grazie agli attenti piani d’ascolto e alla comunicazione di sguardi, come spiega l’attore Popolizio.
L’intero film è una torbida miscela di controsensi e ipocrisie italiane. Il popolo si diverte e ride di gusto alle battute del dittatore, a ogni sua sparata razzista e di pessimo gusto, senza proferire ma e poi accade la vera tragedia. Viene trasmesso un video in cui il duce, durante il suo peregrinare per il paese, spara a un cagnolino, reo di averlo morso, e la sua figura crolla sotto gli insulti della gente, la stessa gente che rideva alle sue provocazioni. “Vorrebbero che leggessi una battuta razzista sugli immigrati. Ma quando voi a casa avete un problema con i ratti chiamate un comico, o la disinfestazione?”. Questa battuta, utilizzata anche nella versione tedesca, trova qui una collocazione più adeguata. L’Italia, più della Germania, vive la sua quotidiana condizione di dipendenza dai mezzi di comunicazione di massa, veri dittatori che decidono quando e perché è il momento di indignarsi.
Massimo Popolizio compie un lavoro eccellente, di profonda analisi che non sfocia mai nell’imitazione e nel posticcio. La scelta di un attore di teatro è stata la più azzeccata, per questioni sia tecniche che di pratica efficacia. Il film è inframezzato da diversi momenti non studiati a tavolino, dove il duce viene mandato per le strade di Roma e grazie alla tecnica della candid camera, presa in prestito dai tedeschi, si sono potute registrare le reazioni più varie, dalle fotografie con i turisti ai saluti romani. Sfruttare un volto noto alla televisione sarebbe stato un autogol pazzesco e l’attore racconta proprio come questo abbia incentivato la scelta di un nome meno blasonato, anziché uno Zingaretti o un ipotetico Crozza. L’unico ad essere un pesce fuor d’acqua è Matano. L’ex iena e star di youtube accusa la sua inadeguatezza nel cinema vero, quello fatto di reali interazioni e contrasti drammaturgici. Il giudice di Italian’s got talent mostra tutti i suoi limiti attoriali, poiché in fondo attore non è. Il suo fare macchiettistico che lo caratterizza sbatte contro il muro di un colossale Popolizio. Volendo trovare una luce nella sua scelta si potrebbe ipotizzare che il personaggio da lui interpretato sia volutamente così ridicolo e sopra le righe, come a voler limare e tenere a bada la figura del duce, anche semplicemente accostandolo al volto noto di Matano. Purtroppo il finale annienta anche questa considerazione. La sceneggiatura parla chiaro, anche quella del film originale e lì la struttura dell’epilogo regge, eccome se regge, grazie al lavoro di Oliver Masucci (Hitler) e Fabian Busch (l’aspirante regista che aiuta Hitler nella sua campagna mediatica). Il finale italiano crolla drasticamente di tensione e il senso del film viene salvato solo grazie al contesto televisivo in cui esso è inserito, molto diverso da quello tedesco, ma più affine alle intenzioni del regista. La scena in tutto il suo surrealismo di fondo ricorda quasi una puntata della serie televisiva di successo Black Mirror.
Una giornalista domanda al buon Frank che idea avesse di Mussolini, anche in seguito al lavoro svolto nel film. Il giovane volto televisivo tergiversa, evidentemente spiazzato da una domanda che necessiterebbe di una risposta culturalmente evoluta, anziché quella di uno scolaro impreparato durante l’interrogazione di storia. Quest’ultima situazione svela il reale meccanismo che rende Sono tornato un film che centra in pieno ogni obiettivo. L’Italia è un paese che non ha memoria, ha poca conoscenza della sua stessa storia, con la quale non si è mai concretamente confrontata. Un popolo disposto quasi al perdono, al rinnovo, convinto davvero che gli errori appartengano solo al passato e non possano più ripresentarsi. Un popolo dalla risata facile, pronto ad innalzare chiunque in cambio di un po’ di sfogo e spensieratezza, senza rendersi conto che “anche allora ridevano di lui”.
VOTO: 7-
DISTRIBUZIONE: Vision Distribution
USCITA: 1 febbraio 2018
DURATA: 96 minuti
GENERE: dark-comedy
PAESE e ANNO: Italia 2018
REGIA: Luca Miniero
SCENEGGIATURA: Nicola Guaglianone e Luca Miniero
FOTOGRAFIA: Guido Michelotti
CON: Massimo Popolizio, Frank Matano, Stefania Rocca, Gioele Dix, Eleonora Belcamino e Ariella Raggio.