La ruota che gira, secondo Woody Allen

Quel mostro che si morde la coda. Quel senso di oppressione che ti schiaccia le forze a terra e ti lascia mezzo vivo e mezzo morto. Lo stress o l’ansia (a seconda di come si intenda l’uno e l’altra, possono essere considerate fratello e sorella), fanno un po’ a tutti quell’effetto lì: alla partenza, in pole position, l’infiammarsi delle guance, l’irritabilità alle stelle, l’insonnia, la mancanza di appetito, il gesto nervoso nell’accensione di una sigaretta o quello di versarsi due gocce di liquore per tracannarlo tutto di un fiato.
Be’, forse ho volutamente esagerato, o forse ho semplicemente descritto quell’atmosfera e quella condizione fisico_psichica che si ritrova in quasi tutti i film di Woody Allen.
Nessuno ne è immune, a rotazione c’è sempre quel personaggio che verso la metà del film, comincia a perdere la brocca, in maniera motivata e casualmente, senza una ratio ben definita. In fondo però il nostro Woody ha ragione: la vita è così, a metà del suo cammino decide che quella persona debba perdere la pazienza, debba sentirsi oppressa da un nervosismo che tende a diventare cronico (e a onor del vero, siamo noi molto spesso ad aiutarla affinché la situazione diventi tale) e che se non ci si arma di coraggio e determinazione, quella condizione in cui ci siamo messi/in cui siamo inseriti, diventi la normalità.
Gli strumenti per uscire da questo pantano spesso grigio (e che nei momenti peggiori tende a diventare rosso fuoco) ci sono tutti, e dipendono inevitabilmente dalla persona che si ritrova dentro queste sabbie mobili.
Nel suo ultimo lungometraggio “Wonder Wheel – La ruota delle meraviglie”, il regista esplora gli anni ’50 di Coney Island, che in quegli anni vive di un turismo ricco e numeroso, grazie soprattutto alle molte attività e sfizi che offre ai newyorkesi che fuggono dal caldo estivo della città. Pesce fresco appena pescato servito in una tavola calda che dà sulla spiaggia, una ruota panoramica altissima che offre un tramonto spettacolare, spiagge libere e immense.
Una famiglia che vive la sua quotidianità lavorativa, con un papà che lavora alle giostre, una mamma che fa la cameriera e un figlio che… be’, un figlio che prevalentemente appicca fuochi ovunque riesca. Un dipinto con colori luminosi, caldi e che fanno bruciare la pelle: ma dietro questo calore in superficie, le sfumature cambiano e i colori si fanno più scuri.
La vera protagonista è Kate Winslet, indiscussa regina di questo melodramma: intrappolata in un matrimonio che l’ha salvata dal baratro in cui lei per prima si era infilata da sola, trova conforto nelle braccia di un giovane bagnino (aka Justin Timberlake).
Questa la cornice del quadro narrativo, anche se poi all’interno ci sono tante altre piccole storie che si vanno a sovrapporre e anche ad affiancarsi, ma la figura su cui pesa (e la scelta del verbo non è casuale) tutta la rappresentazione colorata e piena di musica che riempie questo film di Woody Allen, è proprio lei. La canzone che ripercorre tutta la storia è “Coney Island Washboard” dei Mills Brothers: nessun brano poteva essere più calzante, perché si adatta molto bene alle diverse scene che si susseguono.
Ci si attorciglia a seguire i pensieri della protagonista, perché si tratta di monologhi pieni di respiri ansimanti, urla piene di angoscia che si accavallano con le lacrime e principalmente con la disillusione di una donna, che guardandosi allo specchio si rende conto di quanto la vita sia stata ingiusta con lei.
Anzi no, non la vita: lei stessa con se stessa, perché si rifugia nel suo passato da attricetta di teatro, che è un tempo passato remoto (ma molto remoto) e che lei non vuole abbandonare; perché crede in una storia clandestina che per suo parere dovrebbe trasformarsi in un’ancora di salvezza che non potrà mai essere; perché fondamentalmente non è una buona persona e questa è la sua punizione, inflittale dal regista.
Per la disillusione si sa, Woody Allen fa delle scelte dolci/amare che fanno sorridere, ma che dopo qualche ora ti fanno riflettere e scatenano una serie di considerazioni un po’ tristi e meste, che però altro non sono se non la vera rappresentazione della potenziale vita di ciascuno di noi.
Rebecca Cauda