Il cinema di Nanni Moretti: personale, nevrotico e autoironico

Le citazioni di Nanni Moretti sono ormai diventate iconiche e vengono utilizzate nel linguaggio corrente per descrivere alcune situazioni grottesche, spesso a sottilineare che “le parole sono importanti”, come afferma Michele Apicella, l’alter ego di Moretti, in Palombella Rossa.
Intellettuale ibrido, Moretti suscita spesso irritazione, da molti viene percepito come pedante, egocentrico, simbolo di una certa borghesia intellettuale di sinistra, ma soprattutto scadente come regista e poco credibile come attore. Infastidisce un certo tipo di pubblico che si schiera contro i radical-chic, persone di cultura che nonfanno i conti con la realtà.
La si può anche capire questa insofferenza, d’altronde Moretti è un insolente: appena ventiquattrenne sbeffeggiava la commedia all’italiana in un vis a vis con Mario Monicelli, ospite da Alberto Arbasino, oppure citava Alberto Sordi per fare una metafora sul qualunquismo da bar.

Ma ciò che più lo contraddistingue è la necessità di utilizzare il cinema come specchio di una crisi personale, interiore e di pensiero.
Per questo motivo Nanni Moretti è sempre al centro dei suoi film, anche quando non è il protagonista: lo sono le sue inquietudini, le sue nevrosi, la sua ironia e le sue ossessioni. Il suo cinema è un cinema personale, un estensione e un riflesso della sua soggettività.
Ciò che ci attrae del suo modo di fare arte è proprio questa espressività totalizzante che si manifesta attraverso la messa in scena del lato più intimo di sé, che si mostra nelle sue fragilità quando si infuria come un pazzo e si abbuffa di dolci.
Io non parlo delle cose che non conosco!
Possiamo analizzare la sua filmografia come una biografia divisa in capitoli diversi, ognuno plasmato a seconda del periodo esistenziale che il regista stava attraversando. L’inizio è quello che vede il regista comunicare in maniera quasi arrogante e viscerale, in cui c’è tutta la seccenza della gioventù. Moretti esordisce con Io sono un autarchico, un film ancora ruvido ma autentico, dove finisce per raccontare, quasi per caso, una generazione di ventenni romani, specchio di molti loro coetanei italiani. Ma è con Ecce Bombo, nel 1978, che arriva il primo vero successo: l’autoritratto si affina, le nevrosi si moltiplicano, e Michele Apicella diventa il suo alter ego dichiarato. Un trucco di scena che rende più tollerabile quella scelta radicale, quella di mettersi in scena senza filtri, con tutta la sincerità che lo caratterizza.

“Mi si nota di più se vengo e me ne sto in disparte o se non vengo per niente?” è forse la battuta più emblematica di Ecce Bombo, diventata famosa non solo per la sua ironia, ma perché racchiude tutta l’ambiguità del personaggio e anche quella di una generazione. Dietro la domanda apparentemente frivola si cela un’insicurezza profonda, tipica dei vent’anni: il bisogno di esserci, di essere visti, ma al tempo stesso la paura di esporsi davvero. È anche il riflesso della natura volubile di Moretti stesso, eternamente in bilico tra desiderio di protagonismo e senso di inadeguatezza, tra affermazione e autoironia.
Con Sogni d’oro arriviamo alla maturazione di una consapevolezza chiara: mettere sé stessi al centro della propria arte non è una scelta estetica, ma un bisogno profondo. Un atto che può rivelarsi tanto autentico quanto rischioso, capace di generare verità ma anche di sfiorare il fallimento.
Attorno alla figura del regista Michele Apicella si condensano aspettative, ansia da prestazione, la paura del vuoto creativo e l’ossessione per l’idea che non arriva. Una struttura di meta-cinema che richiama da vicino La nuit américaine di Truffaut ma anche l’esmaotage narrativo di 8½ di Fellini. In Sogni d’oro Michele si arrovella attorno a un rapporto malato tra madre e figlio (incentrato su Freud) ed esplode in una delle scene più violente ma al tempo stesso catartiche del suo cinema.
Quando Michele aggredisce la madre a tavola davanti ai due assistenti, mentre urla che il complesso di Edipo lui non lo vuole risolvere, sembra quasi prefigurare un tema che Moretti affronterà compiutamente trent’anni dopo in Mia madre, in cui sarà la morte a recidere definitivamente quell’ingombrante cordone ombelicale.

Continuiamo così, facciamoci del male
Moretti sembra trovare nella linearità delle trame e in soggetti meno esplicitamente autobiografici, un modo ancora più efficace per raccontare sé stesso. Si apre così una fase più distaccata solo in apparenza, in cui l’autoritratto continua a emergere, ma sotto nuove maschere. In Bianca, ad esempio, si traveste da maniaco ossessivo, incapace di amare senza esercitare un controllo soffocante sulle vite altrui.
Con Palombella rossa, il racconto si intreccia con lo sport che ha praticato per anni, la pallanuoto, diventando il veicolo per affrontare una disfatta personale e collettiva: quella del Partito Comunista Italiano. È un film allegorico e profetico, che anticipa la caduta del muro di Berlino e mette in scena un Michele Apicella smemorato, politico in crisi, assediato da personaggi-simbolo che lo incalzano di domande, spingendolo a fare i conti con il senso stesso del suo impegno politico.

Anche qui, come sempre in Moretti, il conflitto non si risolve, ma si mette in scena. E forse, sì, si continua così. A farsi del male.
Ho voglia di litigare con qualcuno, ho bisogno di litigare!
Dagli anni ’90 qualcosa cambia nel cinema di Moretti: Michele Apicella scompare, e con lui l’esigenza di un alter ego. Inizia una nuova fase, più diretta, in cui il regista sceglie di raccontarsi senza mediazioni. Caro diario, infatti, la voce narrante è apertamente la sua: il regista attraversa Roma in Vespa, ma non è la Roma da cartolina. È una città personale, intima, fatta di scorci scelti per affezione più che per estetica, dove il paesaggio urbano diventa lo specchio diretto della sua interiorità. Un diario, appunto, fuori da ogni cliché.
Poi con gli anni 2000 Moretti torna a parlare di altro per parlare di sé, ma questa volta in modo più rarefatto, meno percettibile, forse più maturo, con meno impulso alla verbosità arrabbiata del “Io non parlo di cose che non conosco”. La stanza del figlio esorcizza una paura ancestrale, quella di un padre che perde un figlio. In Mia Madre sceglie di affidare a una donna una parte di sé, rivelando così un lato profondo e personale della propria interiorità.
Il Sol dell’avvenire, invece, è l’8½ di Moretti, in cui afferma il diritto, o l’arroganza, di dire ancora la sua, di dire cosa lo rende felice.

Sì, sono un mostro! Ti amo! E non voglio morire!
Nanni Moretti, in quarant’anni di cinema, non ha mai smesso di raccontare sé stesso: lo ha fatto attraverso le sue passioni, dalla pallanuoto alla torta Sacher, attraverso i luoghi che abita e sceglie, soprattutto Roma, filtrata da uno sguardo intimo e selettivo; e attraverso le sue idee fisse, come l’ossessione per la lingua, l’insofferenza, la politica, le paure, le fragilità, la morte.
La sua è sempre stata una necessità. Mettersi in scena era forse l’unica strada possibile, con tutti i rischi che questo comporta: risultare sgradito, egocentrico, respingente. Ma è proprio questo tipo di esposizione che crea uno spazio di verità, perché abbiamo ancora bisogno di guardare dentro la vita di qualcuno. E il cinema personale, come il suo, risponde esattamente a questa esigenza.
Questi capolavori tornano al cinema, precisamente nel suo (Nuovo Sacher), con Tutto Moretti – Prima parte, una programmaizone dedicata in cui il regista si racconta con i suoi film.