Ex. Gli angeli sommersi, intervista al regista Giuliano Braga

Ex. Gli angeli sommersi è un documentario che racconta, attraverso le loro voci, la rinascita di ex-tossicodipendenti che hanno trovato una via d’uscita e che ora, attraverso un camper, aiutano chi ancora non ha la forza di uscirne, seguendo la politica della riduzione del danno. Sono angeli sommersi di una Roma dimenticata, periferica, eppure piena di speranza. Distribuito da Chili Tv, prodotto con il sostegno di Villa Maraini e Croce Rossa Italiana, regia di Giuliano Braga. Lo abbiamo intervistato per capire più da vicino la genesi del progetto.
Ciao Giuliano, se dovessi definire il tuo documentario Ex. Gli angeli sommersi in tre parole, quali useresti?
Ex. Gli angeli sommersi è un documentario che si immerge in una realtà talmente densa che è difficile definirlo in tre parole. La prima è sicuramente “opportunità” perché ho concepito il progetto come un’opportunità per lo spettatore di entrare in questo mondo invisibile mentre è seduto al sicuro nel suo salotto. Questi sono luoghi che nessuno vuole visitare o nei quali avvicinarsi ai soggetti che li vivono, definiti tossici o reietti della società ma, nonostante ciò, tutti poi sono pronti a dare una loro opinione o un giudizio su queste persone. La seconda parola che userei è “reale”, ho creato un progetto che fosse genuino, senza artifizi di narrazione o una sceneggiatura programmata, abbiamo lasciato che gli eventi uscissero fuori spontaneamente, siamo stati semplici osservatori. L’ultima parola può essere riferita un po’ più all’estetica del documentario: “elogio”, l’elogio del brutto. Le voci che sentiamo e le storie che raccontiamo vengono da luoghi che per definizione sociale vengono definiti brutti, diversi dalla bellezza del centro storico di una grande città. Io volevo andare un po’ in contrasto e far considerare allo spettatore che anche il brutto, il disarmonico, può essere bello perché alla fine si trova sempre il bello nell’universo, anche nelle torri di Tor Bella Monaca, anche nei tossicodipendenti. Etichettare una cosa come brutta senza conoscerla o osservarla ci fa avere un pregiudizio. Per me si deve elogiare l’underground, con le sue linee nette, i colori dei suoi graffiti, anche questa è Roma.
Come è nato il progetto e perché l’hai scelto?
Il progetto nasce dalla mia curiosità, per molto tempo ho frequentato Tor Bella Monaca, ho partecipato ad eventi che riqualificassero il quartiere e ogni mattina, lungo la strada che facevo, vedevo questo camper fermo con il simbolo della Croce Rossa e allora ho deciso di avvicinarmi a questa isola di cemento e alberi. Appena arrivato quel luogo mi ha ipnotizzato, la prima cosa che mi ha folgorato era che lì ci fosse una storia molto profonda umanamente ma allo stesso tempo invisibile, come una bolla, migliaia di macchine che ogni giorno passavano e non la vedevano. Questa sensazione era stridente, da un lato c’era un po’ di angoscia e volevo andare via e dall’altro ero molto curioso di capire che stava succedendo. Sono ritornato lì quando ho iniziato a pensare al progetto e ho iniziato a intessere relazioni con gli operatori di Villa Maraini, durante tutto il loro servizio quello che ho visto mi ha fatto prendere la decisione di far vivere allo spettatore la stessa cosa che io stavo vivendo. Il titolo del progetto sono due lettere, Ex, ma molto metaforiche: ex sono gli operatori, ex tossicodipendenti, la pedina fondamentale di tutto il servizio, se non fosse gestito da loro non esisterebbe perché gli utenti si avvicinano in quanto riconoscono qualcuno di simile a loro. La parola ex è un valore aggiunto, non ha più un’accezione negativa di un passato che quasi vorresti nascondere, ma il valore di una cicatrice e di una rinascita. Gli angeli sommersi viene da una definizione che danno gli utenti spontaneamente agli operatori, che li salvano soprattutto durante i momenti di overdose, quando nel loro delirio li vedono avvicinarsi con queste casacche bianche. Sono gli angeli di un paradiso comune ma di un mondo sommerso, al di là dello specchio, invisibile.

Hai avuto problemi durante le riprese? Ostilità da parte degli operatori o altro?
Bisogna fare una premessa prima di tutto: entrare in un luogo del genere è molto difficile soprattutto per il tipo di approccio che avevamo noi, ovvero non ricostruire nulla e lasciare che la verità nascesse spontaneamente davanti alla macchina da presa. Per fare questo bisogna ovviamente instaurare un lungo rapporto di fiducia, siamo rimasti a fare riprese nel camper per oltre 5 mesi. Questo dovevamo farlo sia con gli ex, che da protettori di quel mondo inizialmente ci vedevano come dei giornalisti a caccia dello scoop, del click facile, sia la fiducia degli utenti che venivano ogni giorno là e vedendo le nostre facce nuove non si fidavano più. Quindi inizialmente succedeva che gli utenti arrivano, lasciavano le siringhe sporche, prendevano le siringhe pulite e se ne andavano. Così l’ambiente intorno al camper era sempre vuoto, questo timore era dovuto anche al fatto che proprio lì gli ex avevano dovuto difendersi da molti giornalisti di testate anche importanti che avevano tentato di sciacallare sul tema per creare l’indignazione facile dell’opinione pubblica. Alla fine però gli ex, che hanno una sensibilità gigantesca, hanno capito cosa volessimo raccontare noi e la nostra diversità, sono riusciti anche a fare in modo che gli utenti stessi ci vedessero con altri occhi, ci hanno accolto come una famiglia e questo è stato molto importante anche per la riuscita del documentario.
La citazione iniziale di Blake: quando le porte della percezione si apriranno tutte le cose appariranno come realmente sono:infinite, ce la spieghi?
La frase viene dalla raccolta di William Blake, che è un poeta e artista del ‘700, che si chiama Il matrimonio del cielo e dell’inferno. Qui Blake, come ha fatto Dante Alighieri, descrive il viaggio in prima persona nell’Inferno ma, diversamente da lui, non racconta gli inferi come un luogo di punizione ma come un luogo dionisiaco, di piaceri ed eccessi, che si oppone alla natura autoritaria del paradiso. Per Blake non c’è bene e male tra Inferno e Paradiso, non c’è differenza tra i due e questo mi ha fatto sentire una forte analogia tra il viaggio di Blake e quello che stavo facendo io. Il senso più profondo della citazione iniziale era un monito da presentare allo spettatore: guardare il documentario libero da preconcetti e pregiudizi sociali, dal nostro ego, osservarlo nella maniera più pura possibile. Solo così possiamo arrivare a un certo tipo di illuminazione e capire che le persone, le cose e le situazioni sono tutte collegate all’universo e che anche noi siamo l’universo, un universo infinito, in cui la sofferenza di una persona è anche la mia sofferenza.

So che ti sei affidato a degli esperti per la colonna sonora e la grafica…
La musica l’ha firmata Roberto Quattromini, con cui abbiamo fatto una lunga ricerca per capire quale potesse essere il sound più giusto. Avevamo una doppia voglia, rimusicare un brano che colpisse emotivamente e ci è subito venuto in mente Lacrimosa di Mozart a cui abbiamo aggiunto degli effetti distorti, sperimentali. Volevamo tirare fuori anche un sound che parlasse dell’underground e il genere che più ci sembrava adatto era hip hop e rap. La fortuna è stata che Valerio Rinaldi, che ha firmato anche la fotografia in questo progetto, fosse un collaboratore di Quadraro Basement, una delle etichette storiche di Roma dove sono stati lanciati i più grandi artisti della scena rap e hip hop. Volevo un gruppo storico romano, ho pensato ai Colle der Fomento e li ho incontrati tramite l’etichetta discografica che aveva già collaborato con loro, persone straordinarie che hanno subito capito il progetto e hanno messo a disposizione il loro ultimo album, Adversus. Alla fine, abbiamo scelto il brano Mempo e per me è un gran vanto, sono davvero grato per questa collaborazione. La grafica l’ho affidata a uno dei più grandi nel suo campo, Marco Petrucci e il suo gruppo TestiManifesti, con lui siamo in una sintonia oltre le parole, ci bastano due o tre concetti che ci capiamo immediatamente e tiriamo fuori l’idea migliore. Marco ha fatto sia la locandina che la titolazione del documentario, con Marco è una figata, per me è il genio della grafica e sono molto contento che abbia di nuovo collaborato con me a questo progetto.
Raccontaci un po’ di te, del tuo background, a chi ti ispiri nel tuo lavoro?
Sono laureato in Arti e scienze dello spettacolo con indirizzo in Cinema e Videoarte, presso la Sapienza. Come regista mi sono formato principalmente nel cinema indipendente ma ho avuto la fortuna di lavorare nel cinema d’autore e ho frequentato diverse scuole di sceneggiatura romane e umbre. Tuttavia, la mia voglia di conoscenza non ha mai avuto limiti e ho cercato di formarmi in diversi reparti del cinema, dalla produzione alla postproduzione, editing, sceneggiatura, aiuto regia, macchinista e anche piccole parti come attore. Credo che il cinema sia un’arte corale e se vuoi davvero fare il regista devi conoscere ogni aspetto della produzione e della postproduzione del film. Ho sempre scherzato dicendo che esiste solo un dio nel cinema, Alfred Hitchcock, secondo me ogni suo film è una guida per chi fa regia. Però non c’è solo lui, mi ispiro molto all’estetica e all’immaginario della videoarte, in particolare Ciprì e Maresco, Derek Jarman, Rybinski, la videoarte ha da sempre sperimentato l’immagine e va oltre lo schema classico del film. Per quanto riguarda i documentari mi piace molto il modo di raccontare di Pietro Marcello che è uno sperimentatore e poi il mitico Gianfranco Rosi, tra i documentaristi più forti in Italia, mi ispiro molto alla sua delicatezza del racconto, riesce sempre ad avvicinarsi con un passo leggero, invisibile, senza invadere troppo, lascia fruire la verità da sola, ciò che ho cercato di fare in questo documentario.