Il Padrino compie 50 anni, è ancora un capolavoro?

Nel marzo del 1972 usciva nelle sale americane Il Padrino, capolavoro del regista Francis Ford Coppola ispirato all’omonimo romanzo di Mario Puzo destinato diventare uno dei film più noti e amati della storia del cinema. In occasione del suo cinquantennio la pellicola ha fatto ritorno nelle sale in versione restaurata, sicuramente un atto d’amore verso i fan che negli anni hanno celebrato l’opera, ma anche occasione per i più giovani di apprezzare un capolavoro storico dalle poltrone in sala. Certo “capolavoro” lo definirebbe chiunque, dal più ferrato dei cinefili all’ultimo dei profani, oppure no? In effetti non è scontato che possa risultare tale anche agli occhi di un pubblico moderno, magari giovane e che fatica a capire quale importanza ha suscitato dopo la sua uscita e quanto ha influenzato il cinema e la cultura popolare.
Per quanto possa suonare sacrilego per un appassionato, sono passati ben cinquant’anni dalla sua uscita, il mondo, i suoi gusti e le generazioni sono cambiati e quindi potrebbe essere opportuno chiedersi “oggi cos’ha di speciale Il Padrino?”
Cos’ha di speciale?
Quindi perché un adolescente o una giovane ragazza o ragazzo dovrebbe guardarsi un film di quasi tre ore e risalente a cinquant’anni fa? Escludendo chi per spontanea passione verso il media voglia approfondirne la conoscenza, Il Padrino è un’opera importante da conoscere anche solo perché si è italiani. La pellicola racconta un momento preciso della storia, per nulla lontano in realtà, in cui come dice lo stesso regista Francis Ford Coppola, di origini italiane, «essere italiani non era affatto popolare».
Molti italiani, principalmente dal sud Italia ma non solo, emigrarono in America in cerca di fortuna e futuro, lasciandosi alle spalle una terra dura, povera, dominata da tradizioni e usanze rigidissime che in parte si conservano tutt’oggi; la prospettiva non era certo progressista o di ricchezza, e si cercarono nuove opportunità all’estero. Arrivati in America però gli italiani erano trattati come animali, pericolosi, sporchi e ritenuti tutti criminali arretrati. Certo è vero che molti provenivano da condizioni sociali di povertà, da ambienti rurali, anche criminali sicuramente, la mafia si insediò negli Stati Uniti in gran parte proprio dalla Sicilia, ma c’erano anche persone che non volevano avere a che fare con il crimine e pur conservando le loro tradizioni religiose e culturali si impegnavano duramente accettando i lavori umili che il cittadino medio americano non era interessato a compiere. L’opera racconta la storia di una famiglia di criminali mafiosi, e offre un’immagine fedele delle usanze italiane siciliane, che apparivano agli americani come quasi tribali, arretrate e volgari. Il film poi non solo può offrire una riflessione sulle condizioni dure dei popoli che emigrano in paesi più ricchi e sulle difficoltà dell’integrazione, che noi italiani per primi abbiamo riscontrato, ma può inoltre mettere in luce quanto fosse arretrata e oppressa la figura della donna. Completamente sottomessa prima alla famiglia e poi al marito, e la cui unica aspirazione poteva consistere nel diventare madre, alle donne ci si rivolgeva normalmente con toni paternalistici e autoritari, quando non venivano messe “al loro posto” con la violenza; insomma quello che oggi è “mansplaining” all’epoca sarebbe stato addirittura un progresso, ed è una condizione importante da ricordare, essendo così recente.
Altra preziosità considerevole del film sta nella rappresentazione si romantica dello stile di vita criminale mafioso, ma anche severa. Se è vero che il boss don Vito Corleone viene dipinto come un padrino quasi benevolo e disposto ad offrire aiuto e saggezza e a farsi scrupoli, pur rimanendo cinico e calcolatore, il suo erede Michael è usato per rappresentare in tutta la sua spietata freddezza la vera natura della mafia. La spirale che percorre il protagonista parte dall’omicidio quasi per difesa e finisce al rigido regolamento di conti con chiunque possa essere una minaccia, o un rivale, della famiglia Corleone; l’apice è raggiunto alla famosissima e inquietante scena in cui Michael partecipa al battesimo della nipote e nello stesso momento si eseguono una serie numerosa di omicidi organizzati da lui per togliere di mezzo ogni concorrente o nemico della famiglia, approfittando del fatto che per tradizione nessuno, nemmeno gli altri mafiosi, si sarebbe aspettato un attacco proprio durante la cerimonia del battesimo.
Il distacco quasi imperturbabile e disumano con cui il protagonista segue la liturgia e giura di rinunciare al male e al peccato mentre contemporaneamente gli omicidi commissionati da lui stanno avendo luogo rendono la scena ancora oggi sconvolgente e agghiacciante, e forniscono un’idea netta e realistica della natura della criminalità organizzata che tuttora quotidianamente piaga il sud Italia, e non solo.

La cura per i dettagli
«La perfezione è un insieme di tante piccole cose fatte bene» Marco Pierre White
Sebbene risalga appunto al 1927 la regia dell’opera è in realtà molto moderna, e risulta digeribile anche per un pubblico contemporaneo nonostante la sua lunghezza considerevole. Il regista ha raccontato negli anni nel dettaglio quanto fu complicato gestire i contrasti con la produzione e le riprese. I problemi principali riguardavano la scelta del regista di spostare l’ambientazione delle riprese da Saint Louis a New York, comportando un costo molto maggiore e anche molte scelte di casting fondamentali come Marlon Brando e Al Pacino ai quali non era disposto a rinunciare, nonostante il primo fosse considerato un attore dal carattere difficile e problematico, e il secondo fosse praticamente sconosciuto all’epoca. Coppola però ammirava moltissimo Marlon Brando e per il ruolo di don Vito Corleone non riusciva a immaginare che lui, e dopo un provino in cui l’attore improvvisando iniziò ad impersonare il boss e con del cotone in bocca a conferirgli la sua parlata ormai storica il ruolo fu suo.
Oltre alle numerose battaglie di Francis Ford Coppola per realizzare la sua visione precisa, che lo portarono numerose volte a un passo dal licenziamento, fu senz’altro fondamentale il contributo di Mario Puzo, autore del romanzo, e la scelta di coinvolgere un grande numero di attori italo-americani per conferire realismo e carattere all’opera. Coppola decise anche di dirigere la fotografia della pellicola per far sembrare ogni scena come dipinta in un quadro, conferendo grazie a giochi di ombre e bassi livelli di luce alle riprese un’ambientazione suggestiva che lasciava spazio alle parole e alla psicologia dei personaggi; in contrasto poi con le ambientazioni bucoliche e luminose delle scene girate in Sicilia.
Fu quindi la visione autoriale precisa fin dall’inizio di Francis Ford Coppola a conferire il fascino caratteristico e carismatico all’opera, ma anche le performance straordinarie del cast protagonista e la conservazione delle atmosfere da romanzo del libro, tutto ciò conferì a Il Padrino un’aura magica e leggendaria, quasi solenne che dopo cinquant’anni non sembra accennare ad affievolirsi.
