Tout s’est bien passé: il limbo dell’eutanasia secondo François Ozon

Presentato all’ultima edizione del Festival di Cannes, Tout s’est bien passé esce nelle sale cinematografiche disturbato da una critica piuttosto manichea.
Una via di fuga alternativa
La sceneggiatura, che vede la centralità di Emmanuèle Bernheim (morta nel 2017) e dell’omonimo romanzo autobiografico da cui il film si ispira, ruota intorno alla figura paterna della scrittrice. Uomo vitale, proveniente da una confortevole borghesia parigina di origini giudaiche, interpretato da un André Dussolier nel ruolo più indiscutibilmente e impeccabilmente commovente della sua storia cinematografica, alla soglia dei novant’anni viene ricoverato per un aneurisma che lo lascia vigile ma diminuito nelle sue principali attività. Chi ha vissuto la dolorosa esperienza di vedere il proprio genitore in terapia intensiva o, nei casi peggiori, in stato vegetativo, riflette spesso sulla necessità gratuita di questa sofferenza. Assistere impotenti alle quotidiane cure del personale sanitario, dalla toeletta alle flebo di sostentamento, e ascoltare attoniti le incomprensibili parole dei medici, diventano quasi un rituale irrinunciabile del limbo tra la vita e la morte, del paziente, e quasi per osmosi, dei suoi cari. Lo stesso sentimento che investe con tutta la sua forza devastatrice la credibile Sophie Marceau (nel ruolo di Emmanuèle) e che la spinge, con la sorella, ad assecondare la via di fuga alternativa e definitiva richiesta dal padre.
Manicheismo critico, manicheismo narrativo
Se parte della critica manichea ha dipinto il film come divisivo, in realtà l’impressione perplessa che si ricava dalle quasi due ore di visione è quella di un’opera, piuttosto, divisa. Dove la divisione è sinonimo di una frammentazione data da una trama inconcludente, da una sovrapposizione multipla di piani narrativi, da numerose finestre che si aprono senza chiudersi, da binari che continuano, imperterriti nel loro cammino, senza incontrarsi mai. C’è quindi, e prima di tutto, la storia di questo padre originariamente severo, con una deliziosa predilezione per l’arte e la bellezza, retaggio delle origini familiari giudaiche e, in filigrana, di storie di deportazioni e spoliazioni che giustificano l’amore per il collezionismo. La trama narrativa prevede, poi, la doppia natura dell’uomo, sposato con un’artista (interpretata da una glaciale Charlotte Rampling) ma che intrattiene legami omosessuali di lunga data, e che ancora sorride apertamente ai giovani e prestanti ambulanzieri. C’è poi, per non lasciare nulla di intentato, la sublimazione quasi edipica del parricidio, retaggio della bulimia infantile di Emmanuèle-Sophie, duramente criticata da quello stesso padre che ora, immobile in un letto di ospedale, la implora, quasi assecondandola, di aiutarlo a morire.

Un difficile posizionamento
Il dramma sembra poi scivolare inesorabilmente in farsa, nel tentativo cinematograficamente maldestro di condurre l’uomo in Svizzera per il suo ultimo giorno di vita e il suo primo giorno di morte, tra denunce per tentato omicidio (in Francia il suicidio assistito è regolamentato, ma non legittimato), e incidenti vari di un percorso narrativo già sufficientemente accidentato. Risulta difficile, in effetti, prendere posizione sul film che, in tutta onestà e volontariamente, non assume alcuna posizione nei confronti dell’eutanasia e della dolorosa e consapevole scelta personale di voler terminare la propria esistenza quando la sopportazione del dolore e della malattia diventano penosamente intollerabili. Tanti i temi toccati, nessuno di essi affrontato con la giusta profondità. Forse è proprio questa presunta, superficiale leggerezza che rende il film emotivamente sopportabile; sebbene, dal punto di vista sociale, bioetico o politico, la visione di Ozon non apporta alcun elemento di ulteriore riflessione al dibattito, sempre ancora attuale e acceso. Ma, come in moltissime delle sue storie, non ultima quella della pedofilia infantile all’interno del clero (Grace à Dieu, 2018), ogni vicenda si trasforma in episodio prettamente peculiare e personale, o tutt’al più familiare, che non travalica mai la porta di un appartamento, di una chiesa, o di un ospedale. Nel caso specifico di Tout s’est bien passé, il registro narrativo è guidato da una storia sicuramente unica e ineguagliabile, a cui Ozon si attiene con scrupolosa emozione, e con il necessario, salutare e imperturbabile distacco del narratore oggettivo.