Il cineocchio è un cinepugno (parte 1)

Ci fu un tempo in cui il cinema voleva essere davvero l’occhio sul reale. Un tempo in cui le pesantissime macchine da presa aspiravano a farsi leggere leggere per seguire la vita dell’uomo neonovecentesco, in un lasso di tempo che andava più o meno dall’uscita degli operai dalle officine Lumière fino ai pedinamenti sul personaggio di Zavattini.
Va detto che tali ambizioni non avevano di certo la tecnologia dalla loro parte. Non una steady-cam a rendere più agile il movimento, non una scheda di memoria che garantiva riproducibilità infinita, al massimo qualche rullo di pellicola in nitrato, che se non stavi attento si inceppava e prendeva fuoco.
L’ambizione però restava imponente come un monolite, impellente come l’urgenza di acchiappare il tempo e certificarlo proiettando luce su emulsione. Erano i tempi in cui Dziga Vertov realizzava The Man with the Movie Camera, spinto dalla necessità joyciana di raccontare il miracolo tutto nuovo della metropoli, del progresso che si fa Babilonia e dà tetto all’uomo del nuovo secolo. Ancor prima di quel 1929 a dir la verità nerissimo, Luca Comerio aveva sfidato la Storia partendo per i fronti della Grande Guerra per raccontare l’eroicità dietro la trincea o filmando l’arrivo del Milite Ignoto a Roma. La speranza, ben presto rivelatasi vana, era quella di tramandare ai posteri un racconto oggettivo di come erano andate le cose. I totalitarismi allora intercettarono quell’intuizione, rendendosi conto che la verità era di gran lunga più funzionale da raccontare se si decideva di dare un taglio trionfalistico agli accadimenti quotidiani, senza mai dimenticare che l’interlocutore, lo spettatore, andava trattato imponendo uno storytelling elementare, che catechizzasse il bimbo-massa.
La cinematografia è l’arma più forte, dal cine-pugno di Ezejnstein si passava alle cine-vergate sulle reni della dissidenza, a botte di propaganda a tema ruralista o di finto benessere borghese col cinema dei telefoni bianchi…
TO BE CONTINUED