Lucca, ‘chi è che comanda’ a scuola?

“Chi è che comanda, chi è che comanda?”, chiede lo studente che minaccia il professore.
Domanda, tra l’altro, azzeccatissima. Tra le affermazioni dell’aggressione verbale è quella che forse colpisce di più. È bene premettere che parlare di ‘comando’ è inappropriato e retrogrado: a partire dalla seconda metà del Novecento la scuola ha, infatti, progressivamente perso la gerarchizzazione che fino a quel periodo storico l’aveva caratterizzata, aprendosi ad una dimensione democratica della cultura e dell’informazione. Democratizzazione che ovviamente non deve degenerare nella prevaricazione dello studente sul docente, ma che al contrario dovrebbe premettere l’accrescimento del rispetto e della considerazione reciproca.
Guardando bene il video, nel quale il ragazzo ordina al suo insegnante di inginocchiarsi, mentre umiliandolo di fronte alla classe gli chiede “chi è che comanda?”, salta all’occhio una certa ambiguità nel comportamento dell’alunno: l’atteggiamento verbale non corrisponde al linguaggio del corpo. Alzando la voce, infatti, il ragazzo arriva ad urlare, ma contemporaneamente indietreggia. Consapevole dell’esagerazione del suo comportamento, è incapace di starsene zitto almeno quanto lo è di urlare affianco al professore e terminare lì la scena grottesca.
A far indietreggiare il ragazzo, oltre la giovanissima età, è anche il riconoscimento di quello sparuto residuo di autorità che il professore incarna. Ma è una ritrosia che si dilegua quando ad aggredire il docente sono in tre e non più uno soltanto, perché il gruppo deresponsabilizza.
Si sta parlando di adolescenti, quindi di quella sensazione di invincibilità e spregiudicatezza che poco spazio lascia alla razionalità, e poco spazio lascia al rispetto quando si è perso il senso dell’ambizione formativa.
La sfida della scuola è superare il mix letale di disincanto e demotivazione che sta uccidendo le ambizioni e le aspettative future dei ragazzi. Scuola non è sinonimo di programmazione: non serve per la programmazione didattica o formativa degli alunni. Scuola è progettazione, ossia porre al centro del processo formativo l’identità e la personalità dello studente, consentendogli di esprimersi e costruirsi al meglio delle sue potenzialità.
Eppure il preside, Cesare Lazzari, dell’Itc Carrara di Lucca sembra arreso, parla di «ragazzi demotivati, ragazzi che non vorrebbero andare a scuola. Vorrebbero lavorare, guadagnare subito qualcosa e di fronte anche ai nostri consigli di leggere libri, questi si rifiutano. Dicono “ma a che serve?”. Quindi anche la sospensione, il non tenerli impegnati, sembra quasi sia quello che vogliono».
Non è, purtroppo, la prima volta che i docenti parlano di demotivazione. Trattando la questione delle cosiddette scuole di frontiera, l’insegnante di lettere, Giovanna Trapani, dell’Istituto comprensivo statale Giovanni Falcone, del quartiere Zen di Palermo, aveva parlato dei suoi studenti come «ragazzi che non sanno sognare, perché vivono il presente, giorno per giorno. Pensare di costruire un progetto, un futuro, una vita professionale, per loro, è una cosa che accade raramente. Anche abituarli a sognare è un obiettivo della scuola».
Atti reiterati
Il preside dell’Itc di Lucca dichiara che l’insegnante è incredulo e scioccato per i fatti avvenuti. Non riesce a capacitarsi di come sia potuto accadere tutto questo. Verrebbe da chiedersi cosa? Il fatto che si sia ritrovato in rete o che non venga minimamente considerato dai suoi studenti? Ovviamente il professore di italiano e storia si riferisce, ufficialmente, alla seconda questione e la scuola preferisce avvalorare questa sua posizione. Ma è evidente che lo sconcerto del professore, almeno in questo caso, non sia dovuto a quanto avvenuto in classe, piuttosto all’essersi ritrovato su YouTube. Comportamenti del genere sono il risultato di una gestione inefficace della classe e di una continuazione sistematica di atteggiamenti indisciplinati e aggressivi nei confronti dello stesso insegnante, che probabilmente ha omesso la grave condotta alla Direzione scolastica o alle rispettive famiglie dei ragazzi. Per poi ritrovarsi nella morsa spietata della rete e nell’assoluta demotivazione a tornare in aula per insegnare.
Che siano atti reiterati e dettati da una degradazione scolastica progressiva lo dimostra anche quanto avvenuto lo scorso marzo in una scuola superiore di Alessandria, dove una professoressa con difficoltà nei movimenti e fisicamente molto fragile è stata legata su una sedia, con del nastro adesivo. Anche questa vicenda è stata registrata ed il video postato sui social, ma subito rimosso. La docente non ha denunciato i responsabili, tra i 14 e i 15 anni, alle forze dell’ordine. Il Consiglio di classe ha deciso di impiegare i ragazzi in lavori di pulizia, per un mese, nella scuola stessa.
Il ruolo del branco e dei social
La classe è un sistema che si nutre di rapporti e relazioni plurali. È la prima cellula condivisa della formazione personale, perché insegna ad approcciarsi alla conoscenza e dunque alla società. E proprio per questo motivo ripropone al suo interno le macrodinamiche della realtà esterna, fra queste anche la logica del gruppo/branco.
Nei video è evidente che il resto della classe, seduta dietro ai banchi, gioca un ruolo fondamentale nell’esasperazione di quei gesti. Fomenta i bulli, li invita a fare di più; nel secondo video si sente una voce che suggerisce ad uno dei tre di prendere il cesto della spazzatura e questo, come un burattino, esegue spostando i due cesti sopra la cattedra. Tutto per far ridere, per essere forti.
Dai video si sentono soltanto grandi risate e parolacce, nessuna voce di dissenso. Voglio sperare che alcuni fra loro abbiano provato disagio di fronte a quelle scene, ma che non siano intervenuti per mancanza di coraggio. O nella migliore delle ipotesi voglio sperare che alcuni studenti abbiano protestato per quella inciviltà gratuita, ma che non siano stati ripresi.
Lo stesso augurio lo rivolgo ai ragazzi dell’Istituto tecnico di Velletri, dove, un video girato lo scorso anno dimostra palesemente i danni del branco. In questo video addirittura il bullo concede il suo permesso agli altri compagni di classe di testimoniare davanti al preside il suo comportamento. Non smette di minacciare e provocare l’insegnante, arrivando a dirle “te faccio squaglia’ in mezzo all’acido”. Lascia il suo posto, andando verso la docente che esce dall’aula mentre il ragazzo prende a calci la porta.
Il preside dell’Itc di Lucca, inoltre, pone l’attenzione su un altro nodo focale della questione: la surreale realtà dei social, che altera l’autopercezione di se stessi, portando i ragazzi a sentirsi gratificati per «questa messa in scena che hanno fatto. Non era tanto avercela con il professore: questi volevano sentirsi forti in una scena quasi da fiction. Hanno perso il contatto con la realtà ordinaria. Si rifugiano in questo mondo virtuale. […] Confondono l’informazione con la conoscenza. […] Le famiglie stesse – sottolinea – hanno una grande difficoltà culturale di affrontare il cambio di paradigma delle nuove tecnologie. Sono collaborative e non riescono a riconoscere i propri figli in questo comportamento. Sono stupite e attonite».
Niente scuse, grazie
«Hanno chiesto scusa, ma ora delle scuse mi interessa poco. Devo mostrare loro la faccia dello Stato, per il quale non basta una scusa per poter rimediare». Le scuse non bastano e non devono bastare, continua a ripetere il preside dell’Itc Carrara di Lucca, nelle varie interviste degli ultimi giorni. Le punizioni dovranno essere esemplari, la scuola ha bisogno di dare una ripulita generale alla propria immagine. Si sta pensando a sospensioni superiori ai 15 giorni di scuola, probabilmente si proporrà la sospensione fino alla fine delle lezioni, arrivando dunque alla “bocciatura e all’inammissibilità agli scrutini finali”, conclude il preside.
Mi sento però di aggiungere che i provvedimenti disciplinari o la bocciatura pur essendo atti doverosi, non sono sicuramente sufficienti. Non è possibile pensare che la soluzione migliore sia l’allontanamento. Come confermato dallo stesso preside, sembra che i ragazzi siano soddisfatti delle loro sospensioni, viste come un’occasione per non fare niente e starsene a casa. Gli studenti che tentano di bullizzare e di sottomettere alla loro volontà quella dei docenti dimostrano gravi mancanze e limiti, innanzitutto dal punto di vista personale. Motivo per il quale non vanno cacciati dalla scuola, un luogo che già di per sé non li stimola, ma inseriti ancora di più al suo interno. Vanno integrati con corsi ed attività aggiuntivi, hanno bisogno di incontrare proprio quelle materie che considerano inutili, perché necessitano di una preparazione critica e umana, che li porti a comprendere autonomamente i loro errori.
Le loro mancanze non verranno certo risolte con la stigmatizzazione dei loro comportamenti, perché le uniche conseguenze che si registrerebbero sono da una parte la mitizzazione delle loro gesta e dall’altra il rinnegamento della scuola e delle istituzioni in generale. Un incontro formativo, inoltre, favorirebbe non soltanto la reintegrazione degli alunni, ma anche dell’insegnante bullizzato, sicuramente scoraggiato e demotivato nella prosecuzione del suo mestiere.