Senza processo né voce: le storie che il Venezuela non vuole raccontare

Avete visto “Io sono ancora qui”? Si tratta di un meraviglioso girato brasiliano di Walter Salles, che lo scorso anno è stato premiato con l’Oscar per il miglior film internazionale, e che ha raccontato meravigliosamente – per quanto il tema lo renda ossimorico – il dramma dei desaparecidos. Ebbene questo stesso tema che sembrava ormai esaurito e consegnato alla storia, tanto da poter lasciare il passo a libri e film che ne perdurano la memoria, in realtà non è affatto lontano da noi, basti guardare il drammatico caso del Venezuela che gli somiglia spaventosamente.
A Caracas l’opposizione politica continua a essere soffocata da un meccanismo oscuro, fatto di arresti arbitrari, isolamento forzato e silenzi imposti. Sono decine ormai le persone scomparse nel nulla, prelevate da uomini incappucciati senza alcuna spiegazione, come un copione thriller che si ripete nel mondo reale. Famiglie e avvocati non ricevono risposte, e in questo contesto, tanto straziante quanto surreale, i piccoli indizi, come un vestito sporco o un bigliettino, diventano le uniche tracce di vita a cui aggrappare speranza e dolore.
Secondo Human Rights Watch e il Comitato per la Libertà dei Prigionieri Politici (CLIPPVE), almeno 19 oppositori hanno subito detenzioni in totale incommunicado protratte per settimane, mesi e in alcuni casi oltre un anno, vivendo cioè una condizione che, se prolungata, può essere chiaramente sussunta nell’ambito della fattispecie che viene definita dal diritto internazionale come “tortura”.
Per tutti questi casi le autorità venezuelane non solo negano le visite, ma talvolta rifiutano persino di ammettere l’avvenuto arresto o di rivelare il luogo della detenzione. Si tratta di pratiche che configurano sparizioni forzate, in aperta violazione dei diritti umani.
“Questi casi di prigionieri politici isolati sono una testimonianza agghiacciante della brutalità della repressione in Venezuela”, ha denunciato Juanita Goebertus, direttrice per le Americhe di Human Rights Watch, la quale ha inoltre sollecitato i governi a usare ogni strumento diplomatico possibile per ottenere la liberazione dei detenuti.
Oltre a questo spaventoso scenario, il Venezuela aveva comunque già dimostrato di avere gravi problemi con il dissenso politico, infatti, secondo l’ONG Foro Penal, a luglio i prigionieri politici nel Paese erano almeno 853, tra cui 91 stranieri. Tra questi figura anche Alberto Trentini, il cooperante italiano arrestato dalle autorità locali a novembre 2024, mentre lavorava per l’ONG Humanity & Inclusion. A oggi per Trentini – come per tanti altri che vivono la stessa tragedia – non sono state chiarite le accuse né è stato garantito un contatto regolare con la sua famiglia.
Tra gli altri oppositori tristemente noti per vivere o aver vissuto la stessa sorte del Trentini annoveriamo sicuramente anche Américo De Grazia, liberato dopo oltre 380 giorni di silenzio assoluto, nonché l’avvocato Perkins Rocha, il giornalista Biagio Pilieri e l’ex consigliere comunale Jesús Armas: un’esigua rappresentanza di una serie di nomi che si rincorrono in un vortice di storie che si somigliano, con famiglie costrette a mesi di attesa e ricerche disperate.
Tra tutte queste mostruose vicende, uno dei casi più emblematici è quello dell’attivista Luis Palocz, il quale il 14 dicembre 2024 chiuse bruscamente una telefonata con la sua compagna, con il tono di chi è appena incappato in un grande problema da risolvere, dicendo “ti richiamo dopo”. Non lo ha mai più fatto. Alcuni testimoni raccontano di aver visto otto uomini incappucciati aggredirlo correndo verso di lui, e, dopo averlo picchiato, trascinarlo su un’auto bianca. Solo dopo giorni di silenzio da quella telefonata che lascia il cuore in gola la famiglia scoprì che Palocz era stato rinchiuso nell’Helicoide, un ex centro commerciale trasformato in un quartier generale dell’intelligence (SEBIN), già tristemente segnalato dalle Nazioni Unite come luogo di torture.
Proprio l’Helicoide, insieme alla prigione di massima sicurezza “Rodeo I” sono oggi i simboli di questa repressione governativa. In questi luoghi i dissidenti vengono accusati di “terrorismo”, “incitamento all’odio” o “cospirazione contro il governo Maduro”, spesso con processi lampo celebrati in udienze virtuali e senza l’avvocato di fiducia scelto dagli imputati, anche perché le deleghe presentate dalle famiglie – qualora avvisate – vengono respinte, in quanto i detenuti, essendo isolati, non possono firmarle.
Dall’agosto 2025 le regole per quei “fortunati” di cui si sa qualcosa si sono fatte ancora più dure: la consegna di cibo e beni personali è stata ridotta a un solo giorno la settimana, suscitando lo sdegno delle famiglie distrutte da quella che assume i connotati di una guerra civile combattuta dal governo contro il suo popolo, con l’obiettivo di logorare chi non si spaventa. “La mancanza di comunicazione e il rifiuto delle visite sono diventati una forma di tortura che colpisce non solo chi è dietro le sbarre, ma anche i loro cari”, ha denunciato a tal proposito Sairam Rivas, coordinatrice di CLIPPVE e compagna del prigioniero Jesús Armas.
Le prigioni venezuelane dunque non sono solo luoghi di detenzione: sono strumenti politici. Il presidente Nicolás Maduro, già ampiamente contestato durante i suoi precedenti mandati – come raccontatoci ad esempio attraverso immagini che lasciano perplessi rispetto alla validità delle elezioni dello scorso anno, nelle quali è stato riconfermato per la terza volta alla guida, evidentemente in stato di ebrezza, del Paese – si serve diabolicamente di queste prigioni per mantenere il controllo del potere in un Paese già devastato da un esodo forzato di oltre sette milioni di persone e da una crisi economica che non accenna a finire, e di cui lui stesso è certamente il primo autoritario oppressore.
Il messaggio neanche troppo implicito che arriva da Caracas è chiaro: chi osa opporsi rischia di sparire, senza processo e senza voce. Si tratta di un’ombra lunga della storia sudamericana che non riguarda soltanto i dissidenti in senso stretto, ma l’intero tessuto sociale venezuelano, costretto a vivere tra paura, incertezza e angoscia quotidiana.