CHOUCHA, obiettivi e risultati di un campo profughi
L’inizio è il 26 Febbraio 2011, quando tra gli effetti della guerra in Libia, annoveriamo anche l’apertura del campo al confine tunisino. Il campo di Choucha ha accolto le persone in fuga dalle conseguenze del conflitto, facendo fede all’intento dichiarato e all’obbligo sancito di offrire soccorso e protezione a chi sia vittima di situazioni lesive dei diritti umani, e predisporre un terreno di solvibilità rispetto a problemi specifici.
La fuga dalla Libia ha prodotto quello che di solito, stando all’umore generale delle politiche interne ed estere, viene definito come un “assalto alla frontiera” ai danni dello Stato tunisino, evento percepito come potenzialmente pericoloso per il fatto di mettere a rischio la sovranità e la sicurezza degli Stati.
Il 26 Febbraio 2011 il campo viene aperto e si attiva il meccanismo della richiesta di protezione e asilo.
Ma subito qualcosa sembra non funzionare perchè non è automatico il poter ritenere meritevole di protezione internazionale ogni arrivato.
Il primo dei problemi è pertanto indicizzare i presenti come profughi o migranti, la cui differenza sostanziale ed ultima risiede nella distinzione tra una migrazione generata dalla disperazione del vissuto precedente (persecuzioni, guerre, carestie), e un’altra mossa dall’ambizione ad una migliore condizione economica.
Dunque a Choucha sono arrivati molti profughi, ma non tutti sono stati riconosciuti come tali, infatti alcuni esseri umani ancora non ben definiti se non nella certezza del non poter beneficiare di protezione internazionale, a distanza di ormai quasi quattro anni, sono ancora lì in attesa di una soluzione.
Uno dei criteri che le alte agenzie utilizzano per determinare l’accoglimento o il diniego delle domande d’asilo è quello del paese di provenienza ad esempio, intendendo per provenienza nascita, per cui l’arrivato dichiara dove è nato, e se è nato in un paese in cui oggi non si attestano condizioni di pericolosità per l’incolumità della persona, sostanzialmente viene invitato a tornarci.
Modalità questa che appare subito particolare e contraddittoria, andando quasi ad affermare che la vera preoccupazione sia quella di impedire a queste persone di creare difficoltà sui territori in cui si trovano, e non la risoluzione delle loro.
Soprattutto va osservato che in questo modo sembra decadere completamente l’evidenza del fatto che tutte queste persone sono in fuga dalla Libia, al di la della cittadinanza.
E infatti a causa della guerra non sono fuggiti soltanto i libici, ma anche una gran quantità di lavoratori stabilmente insediati in Libia e provenienti da altre regioni dell’Africa.
Per queste persone si è dunque aperta una spiacevole parentesi di discriminazione se non velato pregiudizio e di fatto, tolto il vitto, e una tenda come alloggio, l’aiuto di cui hanno beneficiato non può essere definito risolutivo.
Al campo di Choucha infatti, l’UNHCR ha individuato quelli che da poter ritenere profughi, accogliendone le richieste di protezione e asilo e trasformandoli così in rifugiati, e ha contemporaneamente affermato, per logica conseguenza, di non essere competente ad occuparsi degli altri.
Così a poco più di 2 anni di sabbiose giornate e discutibili accadimenti, il 30 Giugno 2013 il campo profughi viene chiuso, nel senso che ad abitarlo sono rimasti soltanto i diniegati e questi, proprio per il fatto di esser tali e non aver diritto a beneficiare della solidarietà internazionale hanno semplicemente portato l’UNHCR a concludere di poter andare via, lasciandoli lì.
Nel deserto, senza permesso di andare ne avanti ne indietro, scappati dalla Libia e clandestini in Tunisia, senza modo di potersi approvvigionare di cibo e acqua, senza lavoro, senza moneta, senza identità. Sono quelli venuti da dove non c’è più guerra, quelli che potrebbero tornare nel posto in cui sono nati, anche se quel posto non è casa, anche se tornandoci non troverebbero niente o nessuno più di quanto sarebbe in un posto nuovo.
Tornare a casa si può, un biglietto aereo e 100 dollari, questo è quanto dovrebbe bastare a pagare la rottamazione del proprio progetto di vita. Rimpatrio volontario si chiama, e lo offre lo IOM.
Ma molte persone non hanno accettato questa parvenza di soluzione che a dir loro non avrebbe risolto nulla, e sono rimaste lì, dove le Nazioni Unite le hanno lasciate, sopravvissute ad onor del vero grazie all’umanità di chi non gli doveva nulla, più che grazie alla protezione di quelli che in questa protezione non elargita fanno risiedere la loro unica ed ufficiale ragion d’essere.
Ed è già più di un anno che il quella porzione di deserto esistono tra il vivere e il sopravvivere persone innocenti, vittime di una guerra, private del diritto di ricominciare, e la cui unica forma di reingresso nella legalità è l’accettazione forzata di qualcosa che verrà chiamato volontario. Altrimenti c’è il deserto, o il mare. E tra l’uno e l’altro i percorsi sommersi tra le città tunisine, tra impossibilità e discriminazione, inventiva ed espedienti.
E i diniegati di Choucha resistono, affermano con forza contro orecchie sorde che la loro storia personale dimostra l’asincronia dell’impianto normativo rispetto alle reali dinamiche di mobilità, e si scontrano con l’assurdità di un’esternalizzazione le cui procedure hanno già palesato l’inizio disonesto e il fine doppio.
Ad ogni modo, tornando agli eventi, ad oggi pare che all’UNHCR non basti più sostenere che Choucha non esiste più, anche perché generalmente quando afferma questo è immediata la risposta che l’esistenza di Choucha è materialmente tangibile.
Oggi quindi l’UNHCR, non potendo ridurre a menzogna la verità dei diniegati di Choucha, invera la sua bugia, programmando di rimuovere da quell’angolo di deserto ogni memoria del suo esserci stata e aver almeno in parte fallito.
L’UNHCR ha infatti deciso e annunciato di voler togliere a chi è rimasto anche le tende, per indurli oltre ogni possibile resistenza ad andare via. Via da quel luogo che tiene aperto un capitolo che negli uffici hanno già chiuso da più di un anno, se non fosse che le costanti rivendicazioni dei diniegati e di chi li supporta, impediscono la possibilità di non parlarne più.
Choucha non c’è più risponde l’UNHCR ai diniegati, e il fatto di esservi rimasti non può significare il poter affermare che ancora esiste, quanto piuttosto l’aver quasi abusivamente occupato un luogo.
E dunque andate via è il messaggio ultimo, nessuno può più restare.
Rimuovere anche le tende, meglio che finiscano ad essere l’immondizia di un luogo a caso, che lasciarle li ad essere un presidio di disobbedienza e autodeterminazione.
Inizialmente sembrava che il 15 Ottobre sarebbero state tolte le tende alle circa 150 persone rimaste di fatto abbandonate nel deserto. Persone che non hanno diritto di ricevere l’aiuto degli organismi internazionali ma che però, a loro rischio e pericolo, potranno vivere tutte le forme possibili della clandestinità in Tunisia, ivi compreso il tentativo di imbarcarsi per Lampedusa.
Anche se nella macchina europea di gestione dei flussi migratori questa eventualità non è certo passata inosservata e infatti, per l’uscita clandestina dal territorio tunisino verso l’Europa sono in atto notevoli e innumerevoli meccanismi di controllo e sicurezza, ma non certo a carico dell’UNHCR.
Così se l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite trasforma una persona da profugo a clandestino, l’intervento di altre autorità trasformerà quella persona da clandestino a naufrago o da clandestino a carcerato, senza dover minimamente tener conto di un “esser stato” profugo, ammesso che debba occorrere una guerra a giustificare la volontà di attraversare il modo.
Infatti intorno al 13 Ottobre, mentre i diniegati di Choucha riflettevano sul come comportarsi, cosa fare, e soprattutto dove andare, trapelava ed arrivava a Choucha, vera o falsa che fosse, l’informazione che qualora fossero stati trovati lì, sarebbero stati arrestati e condotti nella prigione di Ouardia.
In pratica l’autorità sembra operare per rimozione, delle tende, delle libertà e delle storie, delle verità scomode e delle colpe esplicite, cancellando i vissuti degli individui e la responsabilità di averne compromesso le sorti. La verità personale ha lo spazio di compilazione di un fascicolo, quel che non ci entra non esiste, e quel che non è chiesto non importa, così modulo dopo modulo la parabola della gente intrappolata a Choucha li ha visti profughi o migranti economici dai paesi di nascita, in momenti e luoghi diversi, in un arco temporale di 50 anni, e su uno spazio che va dalla costa ovest alla costa est dell’Africa sub-sahariana. Lavoratori in Libia, chi da anni e chi da decenni, profughi della guerra in Libia, sfollati del campo profughi, cavie umane del nuovo collaborazionismo bilaterale tra un’Europa interessata a spostare il confine sulla sponda sud del Mediterraneo, e una democratica Tunisia presa tra una lusinga e una tirata di orecchie nell’edificazione di infrastrutture logistiche per supportare le esternalizzazioni.
E in questo vortice di interessi altri, sono stati prodotti clandestini, irregolari, detenuti, morti in mare, disperati, mendicanti, e probabilmente perché no, alla fine anche criminali, sempre che sia un crimine l’ostinarsi a sopravvivere, guidando barche o rubando il pane.
Le leggi Europee di fatto producono quegli stessi problemi che ci si dichiara affannati a voler risolvere, vero è che la dinamica di affermare e smentire, di operare scelte in reciproco conflitto, di non far corrispondere la concretezza alla fantasia, ne gli auspici ai comportamenti, è conclamata e certa.
In effetti, già il 14 Ottobre fonti governative tunisine dichiaravano alla stampa che pur confermando la necessità di sgomberare l’area dell’ex campo profughi, questo non sarebbe potuto accadere il 15 a causa della necessità di utilizzare maggiore tempo nella predisposizione degli interventi.
Dunque al termine della giornata del 15 Ottobre, nulla di quanto minacciato è ancora accaduto, ma i diniegati pare abbiano deciso unanimemente e con forza di attendere lì la loro sorte, di non essere interessati a scappare verso una vita urbana da giocare nell’ombra della clandestinità.
Per adesso dunque, legge dopo legge, la condizione giuridica di queste persone appare in progressivo peggioramento pur nella paradossale evidenza che nessun comportamento illecito è stato posto in essere.
Sulla base di questo, i diniegati di Choucha chiedono l’interruzione di questo delirio normativo che, al di la della retorica, altro non fa poi che abbattersi con conseguenze disastrose sulla loro effettiva possibilità di reinserimento.
di Monica Scafati
16 ottobre 2014