Rider: cosa è davvero emerso dall’indagine della Procura di Milano

Hanno creato molto scalpore i risultati di un’indagine sulla categoria dei ciclofattorini o cosiddetti rider svolta dalla Procura della Repubblica di Milano e resi pubblici lo scorso 24 febbraio.
Colpisce la confusione che è stata alimentata, sia sul merito di quanto riferito dalla Procura che sulle conseguenze dell’indagine, dalla narrazione distorta dei fatti di molte agenzie di stampa e giornali online.
Chiariamo subito che la Procura di Milano non ha definito, come si è letto da più parti, che “I rider sono lavoratori subordinati”, né ha stabilito in capo alle aziende del settore un “obbligo di assumere i rider”.
È stato perfino scritto che le prescrizioni dell’indagine sono contenute in una “sentenza storica della Procura di Milano alle aziende”.
Non è stata emessa alcuna sentenza. È stato divulgato un mero comunicato stampa, che ha riferito gli elementi emersi dall’inchiesta svolta sulle tutele riconosciute ai rider in materia di sicurezza e sul controverso inquadramento contrattuale, di cui abbiamo raccontato anche in questo articolo lo scorso 13 novembre https://www.2duerighe.com/attualita/124537-rider-solo-just-eat-li-fa-tutti-dipendenti.html.
Ripercorriamo quindi la vicenda per evidenziare quali sono le reali conclusioni a cui è giunta la Procura, come si legge dal comunicato ufficiale.
L’oggetto dell’indagine
L’inchiesta inizia a luglio 2019, per verificare il rispetto da parte delle aziende di food delivery della normativa in materia di infortunistica, dopo che si erano succeduti una serie di incidenti stradali che avevano coinvolto i ciclofattorini.
A questo scopo, l’indagine parte dalla verifica dello status lavorativo del rider (tipo di contratto, orario di lavoro, mezzi utilizzati, ecc.), acquisendo i dati necessari attraverso controlli ed interviste ai ciclofattorini, adibiti alle consegne dalle società Just eat, Foodinho (Glovo), Uber Eats Italy e Deliveroo.
In definitiva, sono state valutate le posizioni di 60.000 rider che hanno operato, dal 1° gennaio 2017 al 31 ottobre 2020, e che hanno permesso di individuare la categoria da un punto di vista giuslavoristico.
Cosa è emerso sulla figura del rider
Sulla base delle modalità di svolgimento dei rapporti di lavoro, l’accertamento ha rivelato che non si tratta di un lavoratore occasionale e che la prestazione non è eseguita né in autonomia né a titolo accessorio. L’attività di lavoro del rider risulta, infatti, imposta e coordinata dal modello organizzativo adottato dalla piattaforma – e quindi dal committente – attraverso l’applicazione digitale preinstallata su smartphone o tablet.
Pur avendo il rapporto di lavoro queste caratteristiche, l’indagine ha messo in luce che nella maggior parte dei casi il rider è contrattualizzato come lavoratore autonomo di tipo occasionale, ai sensi dell’art. 2222 c.c. Per la Procura si tratta quindi di un illegale inquadramento contrattuale, che non rispetta le peculiarità proprie di questo lavoro.
In più, dall’inchiesta emerge che il ciclofattorino non può considerarsi un lavoratore autonomo neppure in considerazione della sua presunta possibilità di decidere le fasce orarie di lavoro. Questa scelta è drasticamente condizionata dal punteggio o cosiddetto ranking che viene assegnato al lavoratore dal sistema informatico e che tiene conto anche degli ordini che accetta. Con un punteggio basso vengono ridotte, fino ad essere annullate, le possibilità di essere chiamati in futuro per le consegne. È perciò un sistema che costringe il rider ad accettare il più possibile gli ordini, per non subire conseguenze negative.
Conclusioni definitive dell’inchiesta
La documentazione acquisita nell’indagine è stata valutata da un tavolo tecnico che ha visto l’intervento, oltre che del Nucleo dei Carabinieri, dell’Ispettorato del lavoro, dell’Inps e dell’Inail.
I risultati di questo esame convincono la Procura che il rapporto di lavoro del rider deve essere inquadrato con contratti di collaborazione coordinata e continuativa – quindi non occasionale – in applicazione dell’articolo 2 del d.lgs. n. 81/2015, che è uno dei decreti attuativi del Jobs Act e riconosce a questo tipo di rapporti l’applicazione della disciplina del rapporto di lavoro subordinato. Conclusione che è ben diversa dall’affermare, come fatto da certa stampa, che si tratti anche da un punto di vista sostanziale di lavoro dipendente.
La qualificazione contrattuale individuata dall’indagine riconosce quindi più tutele per il lavoratore e vieta la retribuzione a cottimo. E, soprattutto, impone il rispetto di tutti gli obblighi in materia di salute e sicurezza dei lavoratori.
Concluso l’accertamento sono stati notificati a carico delle quattro grandi imprese di food delivery, i verbali di riqualificazione delle posizioni lavorative prese in esame dall’indagine nel periodo precedente ad ottobre 2020, per il recupero dei dovuti contributi e premi assicurativi. Inoltre, sono stati trasmessi i verbali che intimano di provvedere a tutti gli obblighi in materia di sicurezza.
Conseguenze della qualificazione contrattuale individuata
I risultati dell’indagine della Procura, rappresentano di certo una svolta per il pregresso considerato dall’inchiesta e offrono dati rilevanti, ma non sono risolutivi rispetto al riconoscimento di una regolamentazione definitiva di questa categoria di lavoro, in assenza di un intervento normativo esaustivo ed adeguato.
Le questioni irrisolte sulla categoria derivano, non di meno, dall’assenza di un contratto collettivo riconosciuto, la cui stipula escluderebbe anche l’applicazione della norma del Jobs Act individuata dall’inchiesta della Procura che si applica, per l’appunto, in assenza di un ccnl.
È indubbio che la rivelazione dell’indagine dovrebbe sollecitare ulteriormente la definizione di una giusta regolamentazione che è quanto mai urgente anche in considerazione dell’aumento di rider che c’è stato con la pandemia, visto che questo settore ha raccolto una buona parte di coloro che hanno perso il lavoro con la crisi economica.