Recovery Fund. Il 21 luglio fumata bianca al vertice UE su Recovery e bilancio
Non era scontato. Ma il 21 luglio scorso i leader europei hanno raggiunto l’accordo sul Recovery Fund ed il bilancio Ue 2021-2027, in coda a un negoziato record durato quattro giorni e quattro notti. All’annuncio del presidente del Consiglio Europeo Charles Michel è seguito un applauso liberatorio. Così i termini dell’accordo: il recovery Fund avrà in dotazione 750 miliardi di euro, di cui 390 di sussidi. Il bilancio viene fissato a 1.074 miliardi di euro e garantirà anche il debito comune. Per la prima volta in Europa prende forma un vero patto di solidarietà finanziaria.
Il Summit sul Recovery fund
Il vertice straordinario Ue sul Recovery fund e il bilancio 2021-2027 è il più lungo della storia dell’Unione, supera il precedente primato detenuto dal Trattato di Nizza, anni 2000, in occasione del quale fu rivisto l’assetto istituzionale Europeo. A distanza di 20 anni, è cambiata la carta geo-politica dell’Europa. Infatti, se a Nizza furono una dozzina i capi di Stato seduti al tavolo delle trattative, a Bruxelles, i negoziati (durati oltre 90 ore) hanno visto protagonisti 27 Stati membri.
Un intenso lavoro diplomatico ha quindi esacerbato divergenze e contrasti, asincronie che avrebbero potuto far saltare il banco. Il confronto ha evidenziato un’Europa “divisa” in blocchi: I Paesi frugali (Paesi Bassi, Austria, Danimarca e Svezia), i Paesi Mediterranei (Italia, Spagna, Portogallo e Grecia), i Paesi di Visegrad (Ungheria, Repubblica Ceca, Slovacchia e Polonia), l’asse franco-tedesco, mediatore tra i due poli divergenti del Nord e Sud Europa.
L’accordo
Il Recovery Fund prevede una distribuzione di risorse economiche e finanziarie dell’Unione a favore degli Stati membri. 750 miliardi in totale, di cui 390 di contributi a fondo perduto, e i restanti 360 di prestiti. Nel raggiungere l’intesa finale ha avuto buon gioco l’ultimo invito del presidente della Consiglio europeo Michel, un compromesso che riduce il gap tra le due parti più distanti al tavolo, i Paesi Frugali e quelli Mediterranei. Così dall’iniziale proposta di 500 miliardi di sussidi, si passa a 390, mentre i prestiti, in principio previsti intorno ai 250 miliardi, salgono fino a 360. Rimane invariato, rispetto ai pareri originari, l’ammontare del fondo, 750 miliardi di euro. Per strappare il via libera dei Paesi Nordici, inoltre, è servito anche un piano di “sconti” sulla quota che questi avrebbero dovuto versare alle casse di Bruxelles in base al loro PIL. Una postilla, questa, che chiarisce bene i rapporti di forza interni all’Unione. C’è chi traina e chi arranca. Un’Europa a due velocità. Rispetto al 2008, sembra comunque sia interesse comune non lasciare che qualcuno si fermi del tutto.
I nodi
Tra i vari temi su cui ha operato il compromesso, importante è stato l’iter decisionale concernente la questione della governance: i Paesi frugali, capeggiati dall’Olanda di Rutte, volevano il potere di veto su piani di investimento e riforme non in linea con gli accordi; la soluzione definitiva prevede invece una prima valutazione dei piani di riforma da parte della Commissione, cui segue una decisione della stessa a maggioranza qualificata (due terzi dell’assemblea). Una “frenata d’emergenza” è attivabile da singoli Paesi che potrebbero sospendere i pagamenti per eventuali negligenze e omissioni nell’allocazione delle risorse da parte del Paese beneficiario. In ogni caso la decisione finale spetta alla Commissione.
Un punto dolente è invece la risoluzione della questione ungherese. Orban strappa una “non ingerenza” dei Paesi Ue negli affari interni dell’Ungheria. Il legame tra erogazione dei contributi e attuazione dello Stato di Diritto c’è, ma rispetto alle rivendicazioni iniziali, è molto labile.
In Italia
L’Italia da questa intesa riceve in dote 209 miliardi di euro, il 28% del totale. A maggio erano destinati al nostro Paese 173 miliardi; Conte riesce a portarsi dietro 36 miliardi in più, cifra da aggiungere alla voce “prestiti”. Quindi 82 miliardi di sussidi (come da piani iniziali), 127 di prestiti. Il presidente del Consiglio afferma: «con 209 miliardi abbiamo la possibilità di far ripartire l’Italia con forza e cambiare volto al Paese», e chiosa «Ora dobbiamo correre».
Cosa succede domani
All’indomani del via libera da parte dei capi di Stato e di governo al pacchetto su Recovery Fund e quadro finanziario pluriennale, si riunisce il Parlamento Europeo, organo tra l’altro autorevole in tema di approvazione del bilancio comunitario. Le posizioni del PE, fatto salvo un generale assenso sull’operato, divergono su alcuni temi sopracitati, come la questione dei “rebates”, gli sconti concessi ai Paesi frugali sulla quota da versare alle casse Ue in base al PIL nazionale. C’è malcontento anche per gli obiettivi di bilancio a medio-lungo termine, lo si vorrebbe più “ambizioso”, senza i tagli paventati a Erasmus, Difesa, Migrazione. Un monito dell’organo politico dell’Unione, che legge tra le righe dell’accordo appena stipulato una possibile deriva intergovernativa, in cui i Paesi più forti trasferiscono risorse ai Paesi “deboli”, chiedendo in cambio poteri di garanzia e controllo su questi ultimi. Si creerebbero così rapporti di subordinazione tra Stati, a discapito di quella linea di pensiero che invece vede nell’Europa Unita e sovranazionale la strada da percorrere. Il presidente del Parlamento Europeo, David Sassoli, parla di «un accordo senza precedenti fra governi per risollevare l’economia Europea». Dai palazzi di Bruxelles esce un’Europa senz’altro rinnovata, anche nell’immagine, che soddisfa le richieste, soprattutto economiche, originate dal periodo emergenziale. E qui d’altronde risiede il bandolo della matassa. Quando è l’economia dell’Euro-zona a essere minacciata, e quindi di riflesso le finanze dei singoli Stati membri, l’UE risponde, oggi sicuramente, in maniera forte e decisa; diverso il discorso quando si parla di integrazione tra i popoli, di avanzamento culturale, di un sostrato comune che vada oltre il concetto di scambio di merci e di persone. Dall’istituzione della CEE, la Comunità economica europea, nel 1957, passando per il Trattato di Maastricht del ’92, arrivando ad oggi, i passi compiuti verso l’integrazione Europea sono molti e molto grandi. Resta tuttavia difficile superare la preminenza economica degli interessi nazionali e conseguentemente sovranazionali. Senza investire sul sociale, su ponti che avvicinino le diverse etnie che popolano il vecchio continente, sarà difficile vedere concluso quel processo di Unione di cui l’Europa oggi porta forse solo il nome.