Videogiochi facili – Un’analisi ‘spiccia’ ma non scontata

Non sempre la bassa difficoltà è vista come un difetto grave per un videogioco, ma viene sempre considerata come un difetto nelle recensioni, anche se dovesse trattarsi di un piccolo appunto.
Sarà per via dell’infanzia avuta dagli adulti, quando portare a termine un videogioco era motivo di vanto tra amici, oppure dei più giovani nati e cresciuti nell’era dell’online e della competizione, sta di fatto che le domande sulla scelta di rendere un videogioco facile possono venir fuori solo quando questo avviene con titoli di spicco come Final Fantasy XVI.
Porsi tali quesiti spinge a tentare di comprendere scelte apparentemente assurde ma tutt’altro che illogiche.
Non è per tutti
Se è vero che un tempo i videogiochi erano tendenzialmente più difficili, è anche vero che si trattava di un medium tendenzialmente legato ai cabinati (più alto era il rischio di perdere, più gettoni si potevano vendere).
Con l’arrivo delle console casalinghe e portatili, e grazie alle possibilità offerte dal 3D, i videogiochi hanno cominciato a diventare più user friendly.
Nella seconda metà degli anni ’90 si era ancora lontani dal videogioco “cinematografico” e da un distacco netto dalla tipologia di videogiochi vista nel decennio precedente, anche per via del fatto che i videogiochi godevano sì di una popolarità crescente ma non ancora ai livelli raggiunti dall’era digitale in poi.
Eppure la strada verso un medium più agevole stava già venendo tracciata. Basti pensare a un platform come Spyro, meno frenetico del “fratello” Crash Bandicoot che a sua volta è più accessibile e preciso rispetto a molti platform 2D. Il loro rivale dell’epoca, Super Mario 64, seppur meno accessibile per via dei comandi, lo è comunque di più rispetto ai suoi predecessori, con la sua natura più da rompicapo ma anche più calma e meno punitiva.
Un miglioramento dell’accessibilità si potrebbe notare già nei sequel di alcuni titoli anni ’90. Ad esempio, Crash Bandicoot 2 e 3 presentano una main quest più semplice di quella del primo capitolo della serie, e rendono più agevole ai giocatori anche la raccolta delle gemme (nel primo Crash Bandicoot originale, oltre a rompere tutte le casse, è anche obbligatorio non morire mai nel livello per ottenere la gemma) sebbene gli sviluppatori sembrerebbero aver approfittato di ciò per sbizzarrirsi nel celare alcuni obiettivi secondari.
Dalla sesta generazione videoludica in poi, ovvero a partire dagli anni 2000, portare a termine almeno la campagna principale di un videogioco non è più una sfida così grande, salvo eccezioni.

I videogiochi di un tempo erano più difficili prevalentemente per via di una difficoltà artificiale e di una tecnologia ancora limitata. I tempi moderni ed i continui studi dello sviluppo e dell’esperienza videoludica, hanno permesso negli anni la realizzazione di titoli per tutti i gusti.
I “Souls” hanno reso la difficoltà di nuovo popolare nelle masse, in un periodo in cui, probabilmente, i tentativi di avvicinare il medium videoludico a quello cinematografico spingevano verso videogiochi più scorrevoli, al fine di avere una narrazione fluida (non a caso i “Souls” narrano tramite la lore) nonostante siano sempre esistite eccezioni con difficoltà selezionabile e di bilanciamento della difficoltà verso l’alto.
Un esempio di quest’ultimo caso è God of War, e lo è anche per mostrare come il bilanciamento della difficoltà può cambiare in base all’utenza alla quale è rivolto il prodotto. God of War è sempre stata un’esclusiva serie popolare di Sony, ma tale popolarità è arrivata alle stelle con il capitolo del 2018. Che sia questo il motivo per il quale la main quest di God of War Ragnarok risulta essere più semplice rispetto a quella del predecessore?
Una scelta del genere è tipica di videogiochi dedicati a un pubblico ampio. Chi gioca God of War (2018) al livello di difficoltà chiamato “Un’esperienza bilanciata”, ovvero la difficoltà “Normale”, potrebbe ritrovarsi a dover aumentare il livello di difficoltà giocando un Horizon, un Assassin’s Creed o un Marvel’s Spider-Man, per sentirsi appagato in maniera simile.

Se ha una bella storia…
Si immagini di star leggendo un libro, un racconto. Leggendo si sfogliano le pagine, fino ad arrivare a una pagina che proprio non si riesce a voltare: è pesantissima, bisognerebbe allenarsi per sollevarla, oppure trovare uno stratagemma, altrimenti sarà impossibile proseguire con la lettura del racconto.
Sarebbe mai possibile proporre una lettura del genere? Se la risposta è no, ecco un motivo plausibile per spiegare come mai i videogiochi complessi, in genere, non raccontano una grande storia, oppure la raccontano comunque ma con un altro metodo come nel caso dei “Souls”.
Riguardo God of War Ragnarok si è appena scritto di una semplificazione della main quest, non dell’intero videogioco: le missioni secondarie mantengono la stessa difficoltà del predecessore (seppur questo penalizza chi vuole aumentare la difficoltà della campagna principale, costringendo a delle side quest ardue).
Il giocatore medio è ancora figlio di un’epoca dove la campagna principale era spesso l’unica modalità presente in un videogioco. Per lui “finire il gioco” significa portare a termine la campagna principale.
Final Fantasy XVI è emblematico in questo caso. Un’opera piena di filmati anche di lunga durata, dalla narrazione importante persino nelle missioni secondarie più semplici, nonché un videogioco che sembrerebbe aver voluto separare da tutto ciò qualsiasi acuto di difficoltà in maniera netta.

Non che non esistano titoli facili nella serie di Final Fantasy, e neanche è impossibile perdere in Final Fantasy XVI, ma la difficoltà “Normale” di questo titolo è decisamente semplice rispetto anche a molti altri videogiochi facili e a qualsiasi altro capitolo della sua saga di appartenenza.
Tuttavia, questo problema è da sottolineare se comparato alla serie di Final Fantasy, o al ruolo che Final Fantasy XVI dovrebbe ricoprire nella serie, analizzando però la struttura dell’opera in questione, una difficoltà del genere è comprensibile.
Sembrerebbe che Hiroshi Takai abbia voluto che i giocatori si debbano concentrare totalmente sulla narrazione, relegando le sfide più impegnative ad alcune missioni secondarie come le cacce, i Cronoliti e la modalità Arcade, oppure nel New Game+ tramite la difficoltà “Final Fantasy”. Al di là degli evidenti difetti, alcuni dei quali appartenenti anche al bilanciamento della difficoltà, è una scelta che potrebbe anche essere compresa.
Postilla su Prince of Persia (2008)
Nonostante i nemici di base in Final Fantasy XVI siano praticamente una fase di riscaldamento per il giocatore, le sfide contro qualsiasi nemico in grado di vacillare possono essere perse se giocate con troppa superficialità.
Esiste invece un’opera nota per l’impossibilità di arrivare al game over: il reboot di Prince of Persia del 2008.
Usato spesso come esempio del picco raggiunto dalla bassa difficoltà nei videogiochi antecedenti Demon’s Souls, questo nuovo inizio del celebre Principe, rimasto un unicum nella serie, viene citato solo per questa caratteristica particolare.

Ma cosa ne pensano i giocatori e la critica di questo titolo? L’accoglienza è stata piuttosto buona, nonostante i difetti dell’opera non si limitino all’impossibilità del Principe di venire sconfitto, eppure non solo si è trattato dell’ultimo capitolo della serie (in attesa di Prince of Persia: The Lost Crown e dello scomparso remake di Prince of Persia: Le Sabbie del Tempo) ma è addirittura impossibile da reperire in formato digitale degli store PlayStation e Xbox, nonostante la retrocompatibilità almeno per la console di Microsoft.
Paradossalmente, il DLC di questo videogioco, fondamentale per il finale (altra caratteristica criticata) è stato rilasciato solo per le edizioni su console.
Tutto questo non è certamente colpa del pensiero comune riguardante i videogiochi facili, piuttosto della gestione di Ubisoft che da anni ha sempre più bisogno di riordinare le idee, non solo riguardo la saga di Prince of Persia.