Ribelle nostalgia: il calcio di Walter Sabatini

Le sigarette, i fusi orari ed i voli intercontinentali, quel 7% a Salerno e Roma, la sua Roma. Walter Sabatini non un DS qualsiasi, è un’icona, un genio ribelle capace di infiammare ogni piazza dove ha lavorato, è rendere poesia ogni conferenza stampa.
Nel Il mio calcio furioso e solitario, edito per Piemme, Sabatini si racconta partendo dalla propria infanzia fino ad arrivare ad oggi, si racconta ad un lettore speciale, suo figlio Santiago.
Bologna, Roma, Salerno: cosa lega queste tre città e cosa ti ha colpito di ognuna di queste realtà?
Bologna è stata un’esperienza in una città bellissima, molto civile, molto incline ad affrontare i problemi con il senso dell’ironia tipico della città. E poi è la città di Pasolini, verso cui io ho sempre avuto una forte attrazione, da un punto di vista intellettuale logicamente.
Salerno è stata la passione e la gioia. Un’esperienza irripetibile, durata pochissimo. Ma tutte le cose grandi è bene che durino poco, è durata 6 mesi. Sono stati 6 mesi pregni nella mia vita.
Di Bologna ho ricordi un pochino più sfumati, ma molto belli, perché è una città generosa.
E abbiamo fatto bene il campionato. Purtroppo però, a Bologna ho avuto il dolore incommensurabile della perdita di un amico, Siniša Mihajlović, e dell’aver assistito a tutta la sua sofferenza, tutto il suo declino. È una cosa che mi ha segnato e penso che avrà segnato molte altre persone, perché vedere una persona così imponente fisicamente, importante, forte, deprimere e consegnarsi lentamente alla morte è stata un’esperienza traumatica per tanti, per me sicuramente. Tutti i giorni ci penso, è stata una cosa brutta. Quindi, quando penso a Bologna, inevitabilmente la devo far coincidere con questo dolore immenso che c’è stato.
Uno dei ricordi peggiori che ho, da tifoso romanista, è stato quel famoso derby del 26 maggio. Dopo quell’episodio, come avete preparato la stagione come team?
Nella disperazione, l’ho raccontato nel libro. Mi sono chiuso in una stanza d’albergo a Milano e da lì ho fatto tutte le cose per risollevarci dalla polvere, perché di polvere ce ne andava. C’era un clima così pesante a Roma, che era quasi irrespirabile. Quindi io mi sono allontanato da Roma, sono andato a Milano, mi sono chiuso nella stanza dell’albergo che ho sempre frequentato lavorando per la Roma, e da lì con un po’ di arroganza e presunzione ho pianificato la resurrezione. Resurrezione che poi è avvenuta, perché abbiamo preso Rudi García, che ha vinto le prime 10 partite, stabilendo un record tuttora imbattuto e che è partito per un campionato che potrei definire trionfale. Quindi, tutto si è risolto, come sempre nel calcio, una tragedia costante dalla quale ci si risolleva sempre.
Così facemmo una stagione più che dignitosa, con 85 punti e il secondo posto in classifica, provenendo da un’esperienza traumatica, perché la sconfitta all’Olimpico con la Lazio del 26 maggio era stata una bordata veramente difficile da affrontare. La gente era esasperata, arrabbiata, delusa. Noi che facciamo questo lavoro, lo facciamo per la gioia della gente, non siamo una filiera industriale. Il calcio non produce cose materiali, ma deve produrre solamente la gioia dei tifosi e delle persone in generale, quindi, quando ti trovi di fronte a una sorta di disperazione diffusa, allora senti il senso del fallimento che ti pervade e ti paralizza. Così fu in quei mesi, ma poi c’è stato il riscatto come sempre. Un riscatto bellissimo.
Sei legato a gran parte di giocatori con i quali hai lavorato, sono tutti quanti, come dici tu, “pure figli”. Qual è però quello con cui hai avuto più empatia?
Senza ombra di dubbio Daniele De Rossi, tant’è che Daniele De Rossi era lì ieri all’Aniene, a onorarmi della sua presenza. È un ragazzo al quale io voglio particolarmente bene e che in qualche misura, padre permettendo (Alberto permettendo), lo sento quasi come figlio maggiore. Per ora devo dire che lego fortemente con tutti i giocatori, che non è un pregio.
Il direttore sportivo si distacca rispetto ai giocatori, ma io amo tutti i miei giocatori, da De Rossi a Nainggolan, Totti, Gervinho… non ce n’è uno che rimane fuori.
Tant’è che, quando mi aggrediscono i giocatori, a qualsiasi latitudine (che sia Roma, Palermo, Salerno), divento veramente un cane rognoso. Li difendo con rabbia e determinazione assoluta, perché i giocatori sono un po’ un anello debole: sono soggetti alla prestazione, che a volte non è gratificante, né corretta. Gli stati d’animo si sovrappongono, si alternano l’un con l’altro, quindi il calciatore, per sua natura e per il mestiere che fa, è sempre soggetto a contestazioni, a disprezzo, ironia, ilarità. Quindi il giocatore va protetto e accompagnato sempre, soprattutto il talento.
Rimanendo un po’ sui giocatori e andando oltre il libro, quale potrebbe essere un prospetto futuro, italiano e straniero?
Samardzic è un giocatore che farà una carriera fenomenale, così come Pafundi, in cui, anche essendo un bambino, vedo la personalità del grande giocatore. Samardzic è un pochino più grande, quindi più maturo, ha più minuti nelle gambe. Però è un giocatore che inventa calcio, alla stregua di Totti, potrei dire. Senza pari vilipendio al talento, perché Totti è stato un giocatore incommensurabile e nessuno arriverà al suo livello. Però Samardzic è un giocatore fenomenale.
Ci sono gioie e ci sono dolori, specie nella tua carriera. Un rimpianto che hai?
Il rimpianto che mi tormenta tutti i giorni e tutte le notti è non aver vinto lo scudetto con la Roma. Quello mi tormenta e mai mi lascerà quieto, perché ci sono stati i presupposti per poterlo fare e poi non è successo. Quello mi addolora, non per una questione personale o per orgoglio, ma perché sarei stato orgogliosissimo di dare la felicità di uno scudetto alla gente. Purtroppo un anno abbiamo fatto 87 punti con Luciano Spalletti, l’anno prima 85 con Rudi García. 85 è una quota che normalmente porta lo scudetto a casa, però non è successo, perché la Juventus addirittura ha fatto 102 punti. Quindi è stata una questione contingente, una congiunzione astrale asimmetrica. Però quel rammarico profondo e doloroso è rimasto, e rimarrà sempre.
Nel libro uno dei protagonisti è sicuramente Santiago. Ci sei tu, c’è la tua carriera e chiaramente c’è anche lui. Tu hai dato delle indicazioni su quali potrebbero essere le leve future del tuo lavoro: cosa non deve fare il Santiago del futuro?
Non deve essere come me. Deve essere più riflessivo, più distaccato, meno autolesionista. Io sono stato nemico di me stesso, un omicidio, un suicidio quotidiano. Perché ho trattato il mio corpo come se fosse un trattore sballato, parcheggiato in campagna. Ne ho fatte di tutti i colori, tant’è che oggi pago anche il conto. Vorrei che rispettasse di più se stesso, perché io nel corso della mia attività, soprattutto nei miei 6 anni di Roma, il mio corpo l’ho trattato veramente male. Ho fatto delle cose indicibili. Non voglio neanche dire le 60 Marlboro al giorno perché è anche noioso, ma altre cose. Non curare le polmoniti, non rispettare i tempi e i modi del fuso orario. Il mio fisico oggi mi sta restituendo tutto questo, perché faccio un po’ fatica a vivere. A volte dico che sono un uomo dimezzato, ma quel mezzo che funziona deve bastare, e basterà.
Torniamo sul calcio. Chiaramente anche a Roma hai portato tantissimi giocatori forti, ma se dovessi scegliere il miglior colpo che hai portato a termine?
Ce ne sono stati tanti e non voglio mancare di rispetto a nessun giocatore, però è evidente che il colpo è stato Marquinhos: un ragazzino di 18 anni che ha fatto immediatamente il titolare nella Roma, è un’impresa ardua. E lì il merito ce l’ha Zeman, perché quando l’ha visto si è subito fidato, gli ha dato la maglia e non gliel’ha più tolta. Quindi l’esplosione di Marquinhos e la conseguente operazione opulenta di mercato, che abbiamo fatto un anno dopo con il Paris Saint-Germain, è un merito quasi esclusivo di Zeman.
Hai girato veramente in lungo e in largo, hai visto più campi tu che probabilmente internet: c’è un posto dove avresti voluto lavorare e dove, per questioni di tempo e vita, non hai potuto?
Io non vivo con questo tipo di recriminazione o di rammarico. Il mio posto è stato Roma, casa mia è stata Roma, la mia vita è stata Roma. Questo è tutto, il resto c’è stato, è esistito. Ho avuto tante squadre, avrei potuto far meglio però non ho oggi rammarico di non esser stato da qualche parte.
Quindi non hai il sogno della Bundesliga per esempio?
Potrei cambiare Roma per il Bayern Monaco? Mai nella vita, mai nella vita.