Da pochi giorni è uscito “Amarcord”, il mio ultimo disco. Nelle tracce che lo compongono, come d’altronde in tutta la mia precedente produzione, si parla molto di calcio. Nelle settimane conclusive di questa pazza stagione calcistica sono successi vari eventi che mi hanno permesso di promuovere in maniera un po’ scherzosa questa mia ennesima fatica discografica: lo scudetto del Milan, il ritorno in serie A della coppia Galliani e Berlusconi, ma soprattutto le vittorie europee di Josè Mourinho e Carlo Ancelotti.
In questi successi ho visto molto di quei vecchi insegnamenti che non perdono mai di valore, di quella saggezza popolare che resiste a un mondo che vuole propinarci la novità e l’innovazione a tutti i costi.
Dopo la non felicissima parentesi al Tottenham, molti vedevano in Mourinho un bollito o un allenatore finito. Leggi alla voce Paolo Di Canio. Io invece ho pensato fin dall’inizio che Roma fosse la piazza ideale per lo Special One e che, viceversa, per la Roma Mourinho fosse l’allenatore perfetto. Mourinho appena approdato nella Capitale ha avuto l’intelligenza di capire immediatamente dove si trovava. Ha saputo compattare un ambiente che negli ultimi anni era vittima di se stesso. È riuscito per l’ennesima volta a valorizzare il materiale umano che aveva a disposizione. Ha accelerato al massimo i tempi di programmazione percependo quanto fosse importante per la città e la squadra tornare a vincere e, con la consapevolezza che nel calcio di oggi, lottare su due fronti è molto complicato, ha puntato al raggiungimento dell’obiettivo minimo nel campionato, dedicandosi fin dal mese di agosto al cammino in Conference League.

Molto facile oggi sminuire la vittoria europea della Roma, da “rosiconi” direbbero i suoi tifosi. Soprattutto se queste ironie provengono da tifosi di squadre che hanno snobbato per anni l’Europa League senza mai riuscire a portare a casa uno scudetto. La Conference League è il primo trofeo europeo che un’italiana porta a casa da dodici anni a questa parte. L’ultimo è stata la Champions dell’Inter. E chi sedeva sulla panchina dei nerazzurri? Guarda caso Mourinho.
La grande lezione “amarcord” che Josè ci ha lasciato in occasione della partita contro il Feyenoord è che “le finali non si giocano, si vincono”. E ora giustamente sfila di fronte al Colosseo salutando i tifosi come fosse un imperatore. Mourinho ha intuito sin dall’istante in cui è atterrato a Fiumicino quel caldo pomeriggio di luglio che vincere a Roma significa ricevere in cambio la gloria eterna e non ha pensato a nient’altro che vincere.
Per Carlo Ancelotti parlano i numeri. L’unico allenatore ad aver primeggiato in tutti e cinque i campionati più importanti d’Europa. Due Champions vinte da calciatore, quattro da allenatore, anche in questo caso l’unico al mondo. Il Liverpool come la nemesi costante della propria vita sportiva, nel bene e nel male.

In un calcio dominato dall’adanismo di maniera, da Ancelotti abbiamo imparato che non bisogna a tutti i costi imporre il proprio gioco, specie quando l’avversario è superiore. Non è disdicevole attendere e imbeccare in contropiede. In questo senso chiaramente emerge con forza l’italianità di Carletto che qualcuno ha già ribattezzato Carlo IV. Così, senza fronzoli ha eliminato sia Guardiola che Klopp, i nuovi vati del calcio propositivo. Grazie quindi a Josè e Carletto che in un calcio ricco di filosofi e match analyst ci ricordano che, rubando le parola al Paron Nereo Rocco, una squadra perfetta deve avere un portiere che para tutto, un assassino in difesa, un genio a centrocampo, un “mona” che segna e sette asini che corrono.