Il dominio dell’indifferenza
Epoca delle più vistose contraddizioni, l’indifferenza più raggelante va alternandosi alla compulsività in una sorta di schizofrenia sociale. Di fronte alla violenza più bieca che si consuma sotto i nostri occhi, si verificano dei comportamenti collettivi di assoluta indifferenza, di completa assenza di quel sentimento che ci spinge a intervenire in soccorso del nostro prossimo. Ciò avviene proprio quando l’individuo, accorpato a centinaia di altri individui, perde la sua personale coscienza etica. Senza essere indottrinati in scienze sociologiche, basta la semplice osservazione per arguire che la massa obbedisce a un suo proprio codice comportamentale. I romani ben lo traducevano con la locuzione “Senatori boni viri, senatus mala bestia“. Evviva la sintesi dei nostri padri.
La fretta di vivere
Vediamo come la pesante anomalia climatica si ripercuota sulla sfera umana con effetti altrettanto discontinui sul suo stato fisico e psichico. Infatti il detto popolare “perdere la bussola” ci indica come l’uomo, in particolari condizioni climatiche, perda il suo orientamento interiore manifestando irrequietezza e insofferenza.
Oltre a ciò, la strada più facile per assuefarci all’indifferenza ci viene spianata dal sistema di vita odierna che ci ha fatto diventare un complesso di individui al limite della paranoia, figure quasi fantomatiche prese a prestito dalla letteratura kafkiana.
L’illimitata congerie di problematiche quotidiane non ci permette più di soffermarci a guardare negli occhi nemmeno il vicino della porta accanto. Ci si incontra sotto il portone di casa ed un frettoloso “Tutto a posto?” va a sottintendere che il solo approfondimento del discorso porterebbe ad una reciproca filastrocca di problematiche che non si ha tempo di ascoltare. Ognuno vive la sua realtà chiuso in se stesso, evitando di far pesare sugli altri i propri problemi in una sorta di autodifesa. In realtà, coi tempi che corrono si è andato a creare un clima di diffidenza, preferendo parlare con gente estranea al tuo ambiente o intrattenersi in lunghe telefonate con gli amici più intimi, che conoscono – come suol dirsi – vita, morte e miracoli della tua vita. Anche con i parenti che abitano in altri quartieri intercorrono vane promesse di incontri che avverranno solo in occasione di qualche importante ricorrenza familiare, vale a dire “semel in anno”.
Questo significa vivere in una grande città. E ci viene subito in mente la nostra beneamata Capitale, madre di tutti i vizi e di tutte le virtù, ove è piuttosto complicato annullare le distanze. Il quartiere diventa quindi la tua piccola città, una monade che vive di vita autonoma intorno all’irraggiungibile centro storico, meta incontrastata del flusso turistico.
L’attimo fuggente
Il guaio dell’oggi è che la gente vuol fare troppe cose insieme non perdendosi nulla di quanto resta del poco potere economico per afferrare l’attimo fuggente nella visione sbiadita di un orizzonte futuro. E la frenesia che attanaglia un po’ tutti per emulazione vede l’appiattimento delle mode e dei linguaggi in un desolante monocromatismo dal quale nessuno di noi può fuggire. La logica di mercato ci accalappia nel volerci gli uni uguali agli altri, laddove, pur volendo distinguerci, siamo costretti e prenderci quello che passa il convento e che, alla fin fine… finisce per piacerci.
Anche i bambini hanno ormai imparato ad esprimersi con l’okey, obbedendo al linguaggio performante di facebook. La madre dice o.k., il padre dice o.k., anche la nonna si adegua. Presto anche la vegliarda si farà un “tattoo” là dove non batte il sole.
“Tutti lo fanno, anch’io”, sembra essere la regola. Viene in mente quella locuzione evangelica “Etiamsi omnes, ego non” ( “Anche se tutti, io no”) adottata durante il nazifascismo dal gruppo di giovani dissidenti della famosa “Rosa Bianca”.
Ci piace invece essere gli uni uguali agli altri, una nuova Paperopoli con ai piedi le immancabili scarpe da ginnastica rosse o gialle e la testa come quella di Gamba di Legno.
Angela Grazia Arcuri