La penna donata da Walt Whitman
Quando ero piccolo non capivo il concetto del poter vivere una vita sola. Non parlo metaforicamente, voglio dire, pensavo letteralmente che sarei riuscito a fare tutto ciò che volevo fare, e a essere tutto ciò che volevo essere. Era solo questione di tempo.
E non c’erano limiti di età, ceto sociale, razza o credo, o anche solo un preciso periodo di tempo. Ero sicuro che avrei davvero sperimentato quel che i miei sogni rivelavano a me, come ci sente ad essere un conducente di bus, o un prode vigile del fuoco, o un campione dei 100 metri piani come il velocista jamaicano Bolt.
Ricordo che quando mi si chiedeva cosa volevo diventare da grande, facevo un collage di tutti quei mestieri di cui in quel momento ero attratto: “un conducente di un camion dei pompieri veloce come il vento”.
Quello che i grandi non capivano, che non stavo cercando di essere fantasioso. Ero davvero serio. Stavo elencando tutte quelle cose che pensavo sarei riuscito ad essere. E più incontravo nuovi professioni, più la mia lista andava avanti crescendo a dismisura. E quasi nessuno pensava di chiedermi se sarei riuscito a fare qualcosa, ma più che altro “quando”. Capii dopo un po’ che dovevo certamente darmi una mossa per attuare tutto quel quadro di Picasso stampato nella mia testa.
Perciò la mia vita divenne una corsa contro il tempo, per timore di rimanere indietro. Abitando in una piccola cittadina ma avendo una capitale a pochi passi, andare di corsa era considerato normale. È stato a ogni modo molto semplice incarnarmi in Bolt.
Crescendo, passando gli anni, compresi che avrei vissuto niente meno che una vita, una soltanto. Ero divenuto cosciente che non sarei potuto essere un vigile del fuoco, un guida alpina nella Maiella, né un cantante di una rock band. Avrei potuto scegliere solo una di tutte queste cose.
E proprio in quel periodo che le storie hanno iniziato a martellarmi dentro di me; cominciai ad essere completamente affamato di letture, scritti, racconti che mi capitassero sotto mano che raccontassero proprio di questi personaggi; immedesimato con gli occhi di qualcun altro, per quanto di sfuggita o in modo imperfetto.
Iniziai a morire dalla voglia di percepire le esperienze altrui; ero così invidioso di tutte queste intere vite che non avrei mai vissuto, che volevo conoscere ogni cosa di quello che mi stavo perdendo.
E per proprietà transitiva, realizzai che alcune persone non avrebbero mai potuto provare come, ad esempio, si sarebbe sentito un adolescente di una cittadina nei pressi della capitale con la sua quotidianità frenetica e in costante mutamento. Non avrebbero mai saputo come ci si sentiva nel tornare a casa dopo un pomeriggio tra fango e ginocchia sbucciate, o la sensazione di salire sul bus dopo avere avuto il primo appuntamento, o cosa si prova chiuso in camera con i propri genitori che urlano parole l’un l’altro.
Nacque un profondo desiderio in me, volevo che le persone là fuori lo sapessero, volevo raccontarglielo.
Da qui il fulcro di una scoperta. Non avrei potuto diventare tutte quei impieghi che da piccolo desideravo, ma volevo raccontare delle storie. Volevo scrivere.
Per più tempo di quanto ricordi, scrissi tante di quelle parole, emozioni e vibrazioni che mi sgorgavano come un fiume in piena in un quaderno, che poi diventarono molti di più; per me stesso, per la persona che giorno in giorno stavo diventando. Condivisi, collezionai e solo nel recente assalto tecnologico dei social, promulgai alcune di tutte quelle che sono stati i miei punti di vista sul mondo. La scrittura mi ha salvato.
Trovai uno scopo, un obiettivo, che pur sia di crescita individuale e sviluppo dei propri canoni intellettuali, diede voce ha un qualcosa di essenziale, di una colonna portante della mia personalità.
Compresi il profondo valore della scrittura sulla mia pelle, un’arte che da secoli è considerata un importante risorsa per la salute dell’anima e del corpo. Solo con l’avvento della psicoanalisi e delle moderne neuroscienze che ha acquisito la giusta attenzione, divenendo una cura riconosciuta a tutti gli effetti.
La scrittura terapeutica messa sullo stesso piano di ogni altra forma d’arte, ha il merito di stimolare creatività, aiutando la persona ad affrontare l’arduo percorso della crescita e, in casi più gravi, dalla guarigione di una malattia.
L’atto creativo è l’espressione della parte più autentica e nascosta della psiche, la spettacolo diretto del mondo interiore: la metafora, ad esempio, permette di dare forma a diversi personaggi interni e ai loro conflitti, liberandoli dalle loro prigioni
Scrivere è ascoltare la propria profondità, entrare in intimità con se stessi ed intingere dalle proprie immagini, percezioni e sentimenti bloccati: le parole hanno il valore di affermazioni che portano a galla i segni di verità sconosciute, che possono essere analizzate e comprese.
In particolare nel counseling e nelle terapie umanistiche è indicata per aiutare adolescenti problematici, persone affette da disturbi cognitivi, schizofrenici, depressi, pazienti terminali e oncologici, per chi ha subìto abusi e traumi o per quanti vogliano intraprendere un percorso di crescita personale.
L’obiettivo della cura è ritrovare benessere mediante la capacità di creare, accettare se stessi in ogni aspetto, anche contraddittorio, assumersi la responsabilità rispetto alle proprie scelte.
Si tratta di raggiungere un sano equilibrio fra ciò che si è veramente e ciò che il mondo si aspetta da noi.
“Contengo moltitudini”; un ispirazione dalla penna di Walt Whitman a sua volta ha ispirato me, un ragazzino di periferia che sognando di vivere più di una vita, si accorse che bastava avere carta e penna per poterci riuscire. Scoprii uno dei mezzi più potenti e di grande unione tra gli esseri umani.
Molti di noi sottovalutano l’enorme risorsa che latente aspetta di essere scoperta come un tesoro nascosto.
Quel tesoro nascosto che più che mai, vuole essere scoperto, vuole brillare, vuole sorgere. E come il tesoro, anche ognuno di noi su questa terra, ha il sacrosanto diritto di brillare.