NOMOFOBIA: caro cellulare, e se ti perdo?

“Sei la mia vita, il mio respiro, senza di te non posso stare”. Non è il messaggio inviato da un innamorato all’amato bene. L’oggetto del desiderio oggi si trasforma, assume nuovi connotati, non è più fatto di carne e ossa, non ha più occhi ma un display, non ha più un cuore che batte ma circuiti stampati, diodi, cristalli liquidi.
Ora, l’irrinunciabilità diventa un imperativo che si trasferisce a soggetti non umani, cioè a tutti quegli oggetti materiali che sono diventati la nostra seconda pelle. In epoca di ansie e fobie, il vocabolario si arricchisce di un altro neologismo, Nomofobia.
Di origine anglosassone ( nomophobia) proviene dall’abbreviazione no-mobile col suffisso fobia: paura di non avere più il tuo oggetto mobile. E’ la paura di perdere il cellulare, l’ansia della batteria scarica, del credito esaurito o di rimanere “senza campo”.
Sembra inconcepibile vivere senza di esso, il nostro amato, adorato, piccolo amico , minuscolo cagnolino tascabile di plastica , che ogni tanto ci avverte che qualcuno distante da noi viene a raggiungerci con un “bau bau” musicale o con uno “zzzz”, il discreto ronzio di una zanzara amica, che non tira fuori pungiglioni ma ci solletica l’orecchio per dirci “qualcuno ti pensa”. Ma… non sempre qualcuno ti pensa per amore. Basta chiederlo a tutti quelli , e sono tanti, che procedono con l’alienante segreteria telefonica, o perché sono persone importanti o perché…. piene di debiti. Oppure, quando attendi una chiamata importante, si tratta invece del tuo gestore telefonico che ti blandisce con le canoniche offerte mensili. Bufale… ti danno da una parte e si rimangiano avidamente i saldi del credito dall’altra.
Accade a tutti, nel rivedere un vecchio film, di quelli che i giovani relegano in epoca ““preistorica”, di pensare nel corso di certe scene di pericolo per i protagonisti: “ Ecco… se avessero avuto il cellulare!….”. Grande conquista del moderno homo sapiens, quest’aggeggio che gli manca la parola, ma mica tanto, che sostituisce l’ingombrante macchinetta fotografica, che insegue in tempo reale gli spostamenti di amici e parenti itineranti per il mondo, gli stessi che vorrebbero tanto essere lasciati in pace in una vacanza obliante e che si sentono pedinati, braccati e spiati dall’occhio luminoso di un “Led”.
Quanti tradimenti sventati dagli sms, da un cellulare sbadatamente lasciato in giro per casa mentre vai al bagno per la doccia . Occhio ai distratti! La mano vorace e tempista di una compagna o di un compagno gelosi si approprierà dei vostri piccoli e grandi segreti. Quante separazioni avvengono per colpa tua, caro cellulare. Sei diventato il protagonista assoluto dei grandi processi penali, la prova indiziaria, oggetto in primo piano mediatico tra le mani ruvide del contadino di Avetrana Michele Misseri, i tuoi segreti volteggiano tra “cella” e “cella” nell’etere denso dei delitti del XXI secolo.
Spesso rievochiamo il tempo in cui non esisteva quest’ accessorio della nostra anima. Intanto c’era il telefono e quello doveva bastare. Fuori casa, c’erano ad ogni passo le cabine telefoniche con i gettoni: se ne eri sprovvisto, dovevi cercare la rivendita e poi, al ritorno, trovavi la cabina occupata proprio da un tizio logorroico che ti faceva fremere. Cabine spesso inutili se la persona cercata era fuori casa o ufficio. E quelle stressanti attese ai luoghi di appuntamento… verrà, non verrà, problemi di traffico? Non osavi allontanarti dalla postazione prestabilita nel timore che quella persona arrivasse senza trovarti. Per le ragazze, era un “must” dell’epoca quello di “farsi desiderare” e quindi cercavano di arrivare all’appuntamento con una buona mezz’ora di ritardo. Ironia del destino se poi, arrivate in loco, lui non c’era…
Ricordiamo i primi, ingombranti cellulari di circa vent’anni fa , esibiti con tanta ostentazione dai più fanatici come simbolo di uno status quo: erano quelle persone che si fermavano per strada, in postazioni strategiche per essere notate, voce alta, braccio alzato ad angolo e marchingegno all’orecchio.
Da allora, caro cellulare, ti sei impadronito di noi, ti sei infiltrato nelle nostre tasche e nel nostro cervello, non più oggetto ma soggetto, personificazione intermediaria di ogni nostro rapporto, negoziatore, postino, avvocato, giudice di pace. E la tua perdita comporta l’elaborazione psicologica di un vero… lutto. Anche visto il prezzo dei tablets di ultima generazione!
Oggi, ti sei trasformato in “touchscreen”. Il nostro alter ego ha davvero un’anima sensibile: lui non ama la ruvidezza del tocco ma delicate e fuggevoli carezze.
Angela Grazia Arcuri
Roma, 14 gennaio 2013