Geometrie della globalizzazione: quali tendenze?

In quale misura il fenomeno della globalizzazione ci ha fatto perdere le nostre singole identità, sia nazionali che individuali?
Ad ascoltare il nostro semplice pensiero, sembra che in ogni periodo della storia si possa essere verificata in qualche modo una pur circoscritta comunanza di intenti commerciali, resa ai tempi attuali più facilmente planetaria grazie alle potenzialità illimitate della tecnologia. Il che non significa che non si resti in fondo integri delle nostre peculiarità di appartenenza geografica, rese mutuabili con l’avvento della cosiddetta “condivisione”. Questa, oltre a permeare la sfera umana di un significato altamente positivo per favorire la nostra crescita culturale, alla fin fine deborda oltre tali limiti rivelandosi non altro ancora che una necessità di ordine economico.
La “resurrezione dell’Hansa”?
A tale proposito, ci era venuto in mente – e ci si perdoni l’inciso non del tutto casuale – che i nostri “benevoli” cugini d’Oltralpe restano in qualche modo ancorati a quella potente “Lega Anseatica” che nell’alto Medio Evo e fino all’inizio dell’era moderna mantenne il monopolio dei commerci su gran parte delle città dell’Europa settentrionale e del mar Baltico.
Una testimonianza di tale eredità storica si nota ancora nelle targhe automobilistiche delle città tedesche che facevano parte di questo proficuo accordo, la più importante Lubecca. La prima lettera del nome di queste città è infatti tuttora preceduta dalla H di Hansestadt (Città dell’Hansa). Per esemplificare, vedi HL (Lubecca), HH (Hamburg), e così via.
Con l’allargamento ad Est dell’ Unione Europea verificatosi a tappe successive nel 2004 e 2007, questo tipo di legame si è andato rafforzando ed alcuni analisti parlano nientemeno che di “resurrezione dell’Hansa”. Lasciamo peraltro la facoltà a quanti lo vogliano di approfondire questo interessante argomento.
Pentole giramondo
Di recente, guardando un documentario relativo alle popolazioni nomadi esistenti sulla cosiddetta rotta di Marco Polo, siamo rimasti piuttosto colpiti scoprendo che la padrona di casa, portatrice “naturale” di enormi zigomi quale erede di Gengis Khan, nella sua “yurta” (abitazione mobile di nomadi) stava cuocendo la sua zuppa in un pentolino… esattamente uguale a quello che abbiamo nella nostra cucina, riconoscibile dal pesante coperchio trasparente. L’ immagine non poteva non destare una legittima curiosità legata a una certa ilarità. Queste desertiche regioni dell’est asiatico, vuoi il Kazakistan, l’Uzbekistan o il Kirghizistan e quant’altre minori dei territori adiacenti, sono notoriamente ex repubbliche sovietiche le quali, pur se ormai indipendenti, hanno tutto l’interesse a mantenere relazioni commerciali con l’occidente.
Ci siamo però poi chiesti se quel “pentolino”, anziché provenire dalla nostra produzione delocalizzata, vedi Polonia o Romania o Spagna, non fosse piuttosto targato “made in China” come la maggior parte dei nostri prodotti. Quindi, ogni qualvolta ci verrà voglia di una salutare minestrina, saremo presi dall’atroce dubbio circa il vero dna di quel… pentolino giramondo.
Quale cane hai adottato?
Anche le razze canine dipendono dal… mercato. Avere un cane di grossa taglia è diventato un lusso che possono permettersi solo coloro che hanno una casa grande o un giardino. Oggigiorno, tutti più o meno adottano un amico cane per motivi di sicurezza, ma si tratta di una spesa non indifferente sia per il nutrimento che per le parcelle veterinarie non rimborsate dal sistema sanitario.
Parecchi anni fa c’è stato un periodo che, sulla scia del film “La carica dei 101”, andavano di moda i “Dalmata”, cari a Crudelia De Mon. E se ne vedevano in giro di questi eleganti cani bianchi maculati di nero.
Adesso, che ” non c’è più trippa per gatti” (vecchio modo di dire romanesco) laddove corrono tempi difficili, è facile notare persone che portano a spasso cani assai più economici e gestibili. Vedi ad esempio i “fox-terrier a pelo liscio” che vanno per la maggiore, gli “yorkshire”, i “bassotti” o i minuscoli “chihuahua” che le signore radical-chic amano tenere nel pugno di una mano.
Color turchino che passione
… E la politica si veste di turchino. Non c’è politico che nel suo guardaroba non figuri un completo di questo colore, magari con cravatta rossa alla maniera, guarda caso, di Trump. Ora, con l’arrivo della stagione invernale, l’eleganza dei signori dell’industria politica e dello spettacolo subirà qualche cambiamento.
Si vedrà il blu scuro o il fumo di Londra o il verdone di genesi leghista , ma sarà soprattutto necessario cambiare la materia grigia del cervello per non farci dire “cotica” dalle rapaci società private di consulenza finanziaria, impropriamente chiamate “agenzie” di rating.
In antitesi, su alcuni talk-show politici oramai appiattiti su un’unica dialettica, si sono visti giovani vestiti nelle fogge più scalcinate, reclutati e strumentalizzati al solo scopo di fare scena, cioè quello di dimostrare l’esistenza di una sinistra che in realtà ha perso tutti i suoi pezzi. Vedi jeans rotti e tagliuzzati, selve di capelli arruffati simili alla testa di una mitologica Medusa o con minuscole trecce nello stile etiope del negus Hailé Selassié. Ma, quando aprono bocca, non riescono a dire nulla che conforti una vera religione rastafariana.
Sono giovani confusi, sono coloro che appartengono al popolo dei disoccupati, quelli che temporeggiano con lavoretti in nero aspettando un lavoro come dio comanda o, quantomeno, un reddito di cittadinanza che si profila giustamente limitato dalla certificazione di una effettiva incapienza economica.
Ordalìa o “prova del fuoco”
Abiti, colori, pentole, cani e quant’altro, mettiamo tutto nel calderone della manovra che il governo ha assicurato in 5 anni di durata e per la quale, ohibò, andrebbe invocata l’Ordalìa.
Cos’è, una parolaccia? Per carità, lungi dal voler emulare le esternazioni di Sgarbi, si tratta in realtà di quella pratica adottata dai popoli germanici secondo la quale, laddove era pressoché impossibile determinare un giudizio umano, questo veniva affidato al “giudizio di Dio”, sottoponendo l’imputato alla cosiddetta ” prova del fuoco” oppure a un duello. Se lo stesso ne usciva indenne, ciò era prova della sua innocenza.
Ed allora, tutti sotto “Ordalìa”, noi che dobbiamo dimostrare la nostra credibilità e i parenti tedeschi che l’hanno inventata.
Angela Grazia Arcuri