Le COP Biodiversità e Clima: non si può più prescindere sul carattere trasversale dei nostri equilibri

La fine dell’anno è tradizionalmente caratterizzata dalle grandi conferenze internazionali concentrate sulle sfide ambientali. Nel 2024, la COP29 sul clima, che si è svolta a Bali, e la COP16 sulla biodiversità organizzata a Cali in Colombia, evidenziano un paradosso importante per la gestione ambientale mondiale: la persistente divisione in un percorso che mira a risolvere crisi intrinsecamente connesse.
L’origine di questa dicotomia risale al 1982, quando al Vertice di Rio sulla Terra la comunità internazionale ha stabilito un quadro giuridico distinto per il clima (la CCNUCC, Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici) e la biodiversità (la CDB, Convenzione sulla Biodiversità). Da quel momento, i due processi evolvono parallelamente, con obbiettivi, finanziamenti e negoziatori diversi.
Cosa è la COP?
La COP Clima si concentra sulla riduzione delle emissioni di gas serra, mentre la COP Biodiversità mira alla conservazione degli ecosistemi. Tuttavia, queste tematiche che hanno la stessa origine, ovvero l’impatto delle attività umane sul nostro pianeta, si incrociano e sono correlate: la crisi climatica esacerba l’erosione della biodiversità, mentre la perdita di biodiversità limita la nostra resilienza nei confronti dei mutamenti climatici.
Nonostante ciò, fin dal 2004, i negoziati sull’adattamento degli ecosistemi al cambiamento climatico hanno posto le basi di “soluzioni basate sulla natura”, oggi essenziali per rispondere alle molteplici crisi ambientali del XXImo secolo. Queste discussioni hanno anche portato alla luce il ruolo fondamentale degli ecosistemi, come le foreste, gli oceani e le zone umide, nella cattura del carbonio presente nell’atmosfera.
Ma è solo nel 2015, con l’Accordo di Parigi, che la conservazione e la restaurazione della biodiversità sono state riconosciute come elementi chiave per attenuare le emissioni di gas serra e allineare le società all’impatto del cambiamento climatico.
Sul terreno, questa interdipendenza è evidente.
L’Amazzonia ne è l’esempio più emblematico, essendo contemporaneamente un importante bacino di assorbimento del carbonio e un’area dalla biodiversità molto attiva. La sua distruzione incide non solo sul clima mondiale, ma anche sulla sicurezza alimentare, sulla salute e l’equilibrio ecologico globale. Gli impatti complessivi di queste crisi dimostrano che la loro gestione separata è non solo inefficace, ma può anche portare a dei problemi di adattamento.
La mancanza di una visione di insieme conduce a politiche frammentate, che ignorano le sinergie possibili tra le due crisi, e che potrebbero portare sul terreno a delle soluzioni potenzialmente ecocide e/o patogene. Un esempio possono essere le sovvenzioni per gli idrocarburi, che dovrebbero ridurre le emissioni di carbonio, ma che hanno invece favorito la deforestazione e l’uso intensivo di pesticidi. In Indonesia, la coltura di olio di palma (utilizzata anche per il biodiesel) ha portato la fauna selvatica ad entrare in contatto con gli allevamenti domestici di polli, che ha a sua volta innescato la pandemia di influenza aviaria.
Un altro esempio sono i progetti di compensazione delle emissioni di carbonio attraverso la messa a dimora di alberi in monocoltura, andando spesso a rimpiazzare degli ecosistemi naturali più complessi, come le praterie o le paludi. Queste piantagioni impoveriscono la biodiversità, logorano i suoli, e aumentano il rischio di incendi. Vanno anche ad incidere sulla fauna locale che non riesce ad adattarsi, rendendo contemporaneamente nullo il ruolo dei pozzi di assorbimento del carbonio appartenenti
all’ecosistema preesistente.
Questi esempi sottolineano la necessità di una governance integrata, fondata sul riconoscimento
delle sinergie esistenti tra clima e biodiversità. Tuttavia, le strutture attuali favoriscono la frammentazione degli sforzi, finanziamenti compresi, dove clima e biodiversità si contendono le già limitate risorse.
Problemi
La separazione dei mandati e dei quadri normativi limita la possibilità delle COP di far fronte alle crisi ambientali in modo coerente. Mentre le tematiche sollevate (salute, alimentazione, diritti umani, istruzione, popolazioni autoctone, ecc…) si intersecano spesso, le COP lavorano a compartimenti stagni, mettendo in difficoltà negoziatori ed osservatori. Una verticalità che interferisce sia sull’efficacia di possibili soluzioni, che sulla credibilità delle istituzioni internazionali. Questo approccio settoriale chiuso porta anche ad avere delegazioni distinte; i negoziatori del clima provengono principalmente dai settori energetici ed economici, mentre coloro che sono impegnati nei confronti sulla biodiversità arrivano in gran maggioranza da campi legati all’agricoltura e all’ambiente, andando così a complicare l’elaborazione di politica integrate e coerenti.
Una frattura che si trova chiaramente al livello dei finanziamenti, dove si suscita una fortissima
concorrenza per risorse finanziarie già difficili da mobilizzare. Recentemente, la COP29 sul clima si è conclusa con un accordo finanziario giudicato deludente (solo il 30% dell’importo previsto), mentre la COP16 dedicata alla biodiversità non ha neanche avuto il tempo di affrontare la cruciale questione del finanziamento dedicato alla preservazione degli ecosistemi.
La crisi climatica
La crisi climatica occupa i media da 15 anni, ma stiamo ancora cercando di affrontare il primo capitolo. Alcuni giornalisti si interrogano ancora sul riscaldamento climatico davanti ad una nevicata. In questo contesto, come affrontare i nove limiti planetari, dei quali sei sono già superati? Ricordiamo anche che non ci sono solo due grandi crisi ambientali da gestire, ma una buona decina. E sono tutte collegate tra loro.
Appena si è conclusa la COP Clima, il mondo è stato pregato di riunirsi nuovamente in Corea del Sud per finalizzare un coinvolgimento mondiale che portasse alla risoluzione dell’inquinamento da plastica, inquinamento che fa parte di uno dei sei limiti planetari superati: “inserimento di nuove entità nella biosfera”. Quello della plastica è un tema altamente climatico e ambientale.
La sua leggerezza e la sua resistenza ne hanno fatto una soluzione efficiente per la transizione ecologica.
Ma la sua resistenza è anche la sua debolezza: su 9.000 milioni di tonnellate di plastica prodotte dal 1950, 7.000 milioni sono oggi scarti, che inquinano i terreni, gli oceani e anche i nostri corpi. Prodotta grazie ai combustibili fossili, la sua produzione annuale di 430 milioni di tonnellate necessita di 215 milioni di barili di petrolio, con un impatto ambientale largamente ignorato. È questo motivo che ha impedito l’ottenimento a Pusan (Corea del Sud) di un elaborato vincolante sulla produzione di plastica. Soprattutto per l’opposizione dei Paesi produttori di petrolio che vedono nella plastica un “nuovo” mercato che permetta loro di sopravvivere alla transizione ecologica.
Convinzione di Basilea
La Convenzione di Basilea relativa ai movimenti internazionali dei rifiuti derivati è stata emendata
nel 2019, proprio per mettere in evidenza l’inquinamento derivante dalla plastica. Misure ritenute inefficienti nel 2022 avevano rimandato l’agenda al 2024. Il fallimento delle dei negoziati di Pusan ci permette di planare verso le 700 milioni di tonnellate di plastica prodotte annualmente da qui alla fine del decennio. Un’occasione persa per mancanza di coordinamento con i due grandi appuntamenti precedenti: COP29 sul Clima e COP16 sulla biodiversità. Ma anche ai negoziati che ruotano attorno alle altre 6 grandi tematiche: ciclo dell’azoto e il fosforo, il cambio di destinazione d’uso dei suoli, l’uso dell’acqua dolce, l’acidificazione degli oceani, l’impoverimento dello strato di ozono e presenza di spray nell’atmosfera.
La convergenza di tutti questi confini planetari ci porta all’ultima frontiera: quella della nostra umanità, rappresentata nei nostri limiti sanitari. Anche se siamo in grado di adattarci, la nostra fisiologia ha dei limiti invalicabili. Viene messa alla prova da virus che il nostro sistema immunitario non sempre riesce a combattere. Non può neanche far fronte all’inquinamento da plastica che ingeriamo senza accorgercene, o agli additivi provenienti dall’agroalimetare. La sfida è grande, multisettoriale, trasversale e globale. Per tentare di limitare l’impatto delle attività umane sul nostro ambiente, dobbiamo usare gli stessi mezzi: la trasversalità, la cooperazione e il coordinamento, senza più nasconderci dietro ad un quadro legislativo obsoleto.
Il futuro
Le sfide che pone il cambiamento climatico, la perdita di biodiversità e l’inquinamento non possono più essere affrontate in modo frammentario. È necessario un approccio sistemico e trasversale per riconciliare le nostre aspirazioni di sviluppo con i limiti planetari. Va creato un quadro giuridico globale che unisca le responsabilità, fissi degli obbiettivi comuni e misuri i progressi attraverso indicatori abbinati e pertinenti, come per esempio l’impronta ecologica che valuta la pressione esercitata dalle attività umane sugli ecosistemi. In parallelo, diventa urgente creare un fondo unico capace di finanziare progetti trasversali che coinvolgano diverse problematiche. Per esempio, iniziative che coniughino recupero degli ecosistemi, riduzione delle emissioni di gas serra e migliorino le condizioni di vita delle popolazioni vulnerabili.
Progetti come il ripristino delle zone paludose, che agiscono come pozzi di assorbimento, regolatori dell’equilibrio idrico e habitat per biodiversità. Centralizzando i finanziamenti e appoggiando progetti dai molteplici benefici, questo fondo unico potrebbe anche ridurre i conflitti di interesse tra i diversi settori e incoraggiare la cooperazione internazionale.
Questo approccio sistemico è non solo urgente, ma anche un’opportunità per costruire un futuro
più giusto e sostenibile, come afferma anche il WHO (World Health Organization) con il concetto di
“One Health”: proteggere la salute ambientale per preservare la salute umana.