Aureliana gloria

Qualcuno affermò che il talento è una grazia, leggendo La gloria, ultimo libro scritto da Aurelio Picca per Baldini+Castoldi, potremmo essere d’accordo con Manzoni. Picca di talento ne ha, l’ha dimostrato nel corso della sua carriera ed il frutto del suo talento è una grazia nella scrittura assolutamente fuori gli standard ai quali solitamente il lettore medio è abituato.
La grazia di Picca non profuma, puzza di vita vissuta sulla sua pelle ed è questo a renderlo uno scrittore agenerazionale.
La gloria non la racconta da cronista sportivo, seppur nel libro troviamo tanto sport, da Mennea a Chinaglia passando per Cassius Clay e Pantani.
Picca la gloria la maneggia con tutti e cinque i sensi e se questi ultimi si sviluppano durante l’infanzia, ricordiamoci che Picca di infanzie ne ha avute ben tre.
La gloria di Picca la vedi nel dito di Chinaglia verso la Sud, la gusti in quell’insalatiera di fettuccine e in quell’abbacchio di Sermoneta in trasferta, la odi nell’olè del pubblico quando il torero, durante la corrida, inizia la sua danza silenziosa, la odori sul ring di Kinshasa mentre Ali perde celatamente i sensi e Foreman essotericamente la corona (e si Aurelio in quello stadio l’Africa fu George e non Cassius), la gloria la tocca Ayrton Senna sul volante della sua Williams.
Lo sport raccontato da Aurelio nel libro non è lo sport di oggi, quello delle superstar mediatiche ma quello di prima, quello dei duelli, veri e necessari come il talento di Aurelio.
Lui che scrive il necessario pensando all’assoluto.
C’è tanta vita per Picca in quei novanta minuti sul manto erboso di un campo di calcio e, come Mancini, Aurelio è uno che ama il passaggio e non andare il goal. Quando la rete si gonfia alle spalle del portiere finisce tutto ma mentre la palla disegna il tracciante verso quello che sarà poi il marcatore c’è un esplosione di bellezza vitale, il fiato sugli spalti si ferma, il tempo rallenta il suo corso, la palla arriva sui piedi del bomber che la insacca ma dopo? Lo spettacolo finisce.
Lode e gloria ai numeri dieci, eroi silenziosi alle spalle dei numeri nove.
Nel pugilato è diverso, il KO reincarna il gioco della morte. Sali sul ring da solo, non hai dieci compagni che ti aiutano ad assestare i colpi, l’angolo ti può sostenere ma il più delle volte sul quadrato non senti nulla e se la sorte decide che quel giorno devi andare a tappeto vai giù solo.
Dal paradenti assapori l’amarezza della solitudine, un giusto mix tra saliva e sangue. Non si muore in compagnia, si muore soli.
“Non so cosa è la Gloria. Ma l’ho sentita, annusata, contemplata. Credo che aleggi tra il profondo della terra e il cielo”
Da promesso abitante del purgatorio Picca non poteva che collocarla lì la Gloria, quella gloria di colore azzurro perché tinta di qualcosa di divino, quella gloria cessata, come lui stesso afferma in un intervista, per cessata gioia.
Nel libro, scritto in cinquanta giorni, c’è tanta gloria altrui ma tra le righe c’è anche la tua Aurelio, “Primo” tra gli ultimi ghibellini rimasti su questa terra.