È possibile fuggire dal proprio dolore?

“Da lì in avanti la vegetazione cominciava a cambiare: un’abetaia, quindi arbusti di sorbo, roveti, noccioli, acacie, tronchi calzati di edera, grosse palle di vischio appese a branche ormai spoglie, chiome intrecciate, innesti complicati e fardelli di rami morti ceduti da una pianta all’altra. Era il bosco al suo stato primordiale, di confusione arborea e soffocamento reciproco.”
Tornare dal bosco è un romanzo di Maddalena Vaglio Tanet candidato al premio Strega 2023 ed edito per Marsilio Editori. L’autrice, classe ’85, ha studiato letteratura all’Università di Pisa e al momento vive a Maastricht, dove lavora come scout letteraria. Non è alla sua prima pubblicazione, ha infatti raggiunto la finale del premio Strega Ragazzi nel 2021 come migliore esordio con il libro Il cavolo di Troia e altri miti sbagliati.
La sua nuova opera narra una storia vera, tratta da una triste vicenda familiare tenuta il più possibile nascosta persino a lei. È il racconto di una maestra elementare, Silvia, dedita anima e corpo al suo lavoro che prende sotto la sua ala protettrice una bambina, Giovanna, ripetente e con difficoltà di socializzazione. Nel tentativo di salvaguardare il suo percorso scolastico, Silvia rivela alla madre della bambina le ripetute assenze di quest’ultima che, rimproverata dal genitore, pone fine alla sua vita lanciandosi dalla finestra.
Silvia, sconvolta dalla notizia, si esilia nel bosco, dove inizia a rifiutare ogni contatto con altri esseri umani, nonostante il tentativo dei suoi concittadini, in particolar modo di suo cugino Anselmo, di ritrovarla.
In questo romanzo dalla prosa asciutta e fluida, Maddalena Vaglio Tanet ripercorre la storia della cugina del nonno introducendo la figura di Martino, un bambino emarginato che farà di tutto per riportare la sfortunata protagonista a casa.
Il bosco: luogo ameno o minaccia
Il bosco è per noi esseri umani un luogo ambiguo. Può essere declinato come posto fatato, come quello della narrativa fantasy, con elfi, gnomi e folletti che lo ammantano di un’aura di magia, così come il perfetto scenario di storie horror, in cui il dedalo intricato di strade e la fitta coltre di alberi costituiscono una trappola perfetta per vittime dei più efferati agguati.
Il bosco rappresenta da un lato il ritorno alla natura, il contatto con la madre Terra che secondo alcuni l’essere umano avrebbe perso, vivendo una realtà artificiale in luoghi urbani; dall’altro, un ambiente pericoloso, specialmente se lo immaginiamo di notte, buio e misterioso. Perdersi nel bosco non è qualcosa di rassicurante, e in questo luogo selvaggio e colmo di insidie risiede la paura dell’essere umano di non godere più del dovuto adattamento per sopravvivere di fronte a pericoli naturali come gli animali selvatici che lo popolano. Anche nell’immaginario infantile, il bosco è la casa di animali dolci e simpatici, così come teatro di vicende macabre, come nel caso di Cappuccetto Rosso e il lupo, dove proprio il bosco è l’ostacolo da superare per la piccola protagonista.
In questi giorni il bosco è un tema piuttosto vivido, per via del recente episodio di cronaca nera riguardante Andrea Papi, un ventiseienne avventuratosi per le strade boschive di Caldes che ha perso la vita per l’aggressione di un’orsa. A far discutere è il dibattito circa la necessità di abbattere l’orsa, come se fosse giusto applicare su un animale la legge umana (quindi la pena di morte), ma questo è un tema che non tratteremo in questa sede. Ciò che colpisce è la volontà del ragazzo di esplorare ambienti potenzialmente pericolosi, ma anche rigeneranti e conciliatori con la natura.
Un rifugio per l’anima
Il bosco è per Silvia un rifugio, un luogo di ritiro e reclusione nonché di difesa contro una società diventata un fardello troppo pesante da sostenere. La sua fuga in un luogo ambiguo, che può essere simbolo di pace e serenità come di pericolo e paura, rappresenta un affrancamento dalla vita associata e le sue regole, in virtù delle quali l’essere umano è sì, tutelato, ma anche prigioniero di una fitta rete di convenzioni e rapporti soffocanti.
L’intenzione di Silvia non è così ovvia. Che si sia isolata per curare il suo dolore, per starne lontana o per morire, non viene esplicitato con chiarezza. Ciò che si sa è che la maestra non vuole essere trovata. Il suo gesto eclatante non è un messaggio per il prossimo, ma un egoistico atto di autoconservazione.
I sentimenti di dolore che Silvia prova sono frutto della vita associata, delle relazioni sociali che nel loro misterioso intreccio l’hanno condotta a essere causa del suicidio di una bambina e hanno generato in lei una sofferenza insopprimibile, se non con la fuga dall’essenza umana.
Il bosco come luogo per morire ci riporta alla mente un luogo in particolare, salito di tanto in tanto agli onori (e orrori) della cronaca: la foresta di Aokigahara, ai piedi del monte Fuji, in Giappone, tristemente nota come “foresta dei suicidi” per l’alto numero di persone che ogni anno decidono di togliersi la vita proprio tra la fitta vegetazione di questo angolo di bellezza e morte.
Non è dato sapere che cosa spinga molti giapponesi a togliersi la vita proprio nel bosco. Possiamo immaginare che sia un ultimo tentativo di fuga da una realtà che li ha oppressi, e una ricerca finale di una pace che solo nella natura, quindi affrancati dal caos della vita associata, è possibile trovare. Così sembra pensare Silvia che, nel suo desiderio di isolamento, trova solo in Martino, il bambino emarginato, un compagno di solitudine nel triste vorticare dei suoi pensieri.