Expo e il buco statunitense
Sarebbero ben 26 i milioni di euro di buco lasciati dal Dipartimento di Stato americano al termine di Expo 2015; secondo quanto riportato da Il giornale e Politico.com (qui l’articolo), l’Ente a stelle e strisce è in debito con i fornitori i quali – nonostante abbiano portato a termine i lavori per il padiglione USA nei tempi previsti – non sarebbero ancora stati pagati. La protesta, partita dalla newyorkese Thinc Design di Tom Hennes – alla quale spetterebbe un milione di euro per l’installazione di una passerella e di alcuni lampadari del padiglione americano – vede coinvolte una quarantina di società, rimaste a bocca asciutta nonostante il lavoro svolto. Il principale responsabile di queste società sarebbe il segretario di Stato John Kerry, finito al centro delle cronache nell’ottobre scorso, quando i rapporti tra l’associazione no profit Amici del padiglione USA (costituita ad hoc) e i fornitori erano già ai ferri corti per via di un arretrato di circa 20 milioni. Al tempo gli americani risposero sostenendo che i ritardi erano imputabili a problemi legati alla raccolta fondi ma la somma ‘obiettivo’ di 50 milioni non fu mai raggiunta, figuriamoci adesso che Expo è bell’e chiuso.
Oltre alla già citata Thinc Design, le società più esposte sono l’elvetica Nussli, alla quale spetterebbe una cifra compresa tra 12 e 15 milioni, Uvet e Simmetrico, che hanno curato logistica e interni e devono incassare quasi 3 milioni di euro. Sperare di sanare il debito attraverso un intervento del governo non è possibile perché negli Stati Uniti è vietato utilizzare soldi pubblici per finanziare questo tipo di manifestazioni: ecco spiegato il ricorso USA al fund raising, una strategia di raccolta fondi che di per sé non offre garanzia assoluta di raggiungimento della quota obiettivo. Se per l’Expo di Shanghai del 2010 l’allora segretario di Stato Hillary Clinton aveva raccolto oltre 60 milioni di dollari in soli 9 mesi, la raccolta fra sponsor e donatori per Expo 2015 non ha raggiunto la quota prevista e le fatture sono rimaste lì ad aspettare.
Expo e spionaggio non si possono sommare per fare il titolone
Alcuni giornali e blog esprimono sdegno nei confronti della vicenda e lo amplificano accostandolo ai recenti scandali delle intercettazioni da parte del governo USA verso Berlusconi e il suo ultimo esecutivo (probabile anche un poco di preoccupazione americana visti i rapporti tra Berlusconi e Putin). In verità l’accostamento è azzardato; come le maestre elementari insegnano, non si possono sommare litri e chilogrammi. Quella delle intercettazioni è un’altra questione che merita di essere analizzata a parte. Putroppo il rapporto di dipendenza dagli Stati Uniti è cresciuto dalla fine della seconda guerra modiale – vedi il Piano Marshall – e più tardi – dalla caduta del muro di Berlino – è sceso ad un livello difficile da cogliere e sempre più spesso costringe l’Italia e l’Europa a fare il cane alla catena. Cito, ad esempio, un cablogramma di Wikileaks del 2011, che riferiva delle intenzioni dell’Ambasciatore Usa a Parigi, Craig Stapleton, di intraprendere una “rappresaglia” economica nei confronti dell’Europa e in particolare della Francia in seguito alla messa al bando della varietà ogm di mais Mon-810 della Monsanto nel 2007. Da allora cominciarono azioni di rappresaglia che avevano lo scopo di arrecare “qualche sofferenza” a tutta l’Ue perché si trattava di una responsabilità collettiva. A questo aggiungiamo una constatazione empirica: uno Paese che investe milioni di dollari in armamenti e tecnologie sofisticate di spionaggio non lo fa certamente in nome del mero progresso; pensare che tali apparecchiature vengano costruite per finire sostanzialmente in soffitta sarebbe un grosso errore, pensare che non esista un Grande Fratello orwelliano e che i governi delle nazioni più potenti agiscano all’acqua di rose è uno sbaglio che nessun Paese può più permettersi di compiere, cittadini inclusi.