Tempo e memoria. Verità e dialogo. Un’intervista filosofica a Riccardo Roni

Riccardo Roni, nato nel 1982, è abilitato a Professore Ordinario di Storia della filosofia e a Professore Associato di Storia della filosofia e di Filosofia morale. Formatosi presso le Università di Pisa, Firenze, e presso la Fondazione San Carlo di Modena, dal 2011 al 2017 ha insegnato presso l’Università di Urbino “Carlo Bo” e attualmente collabora con la Fondazione “Mario Tobino” di Lucca. È componente di prestigiosi comitati scientifici di riviste e di collane editoriali, presidente della sezione lucchese della Società Filosofica Italiana (SFI) e membro del Consiglio direttivo nazionale. Roni è inoltre socio della Società Italiana di Storia della Filosofia (SISF). Dirige tre Collane editoriali presso editori nazionali (Edizioni ETS, Castelvecchi Editore, Le Lettere) ed è Associate Editor della rivista internazionale “Disputatio. Philosophical Research Bullettin” (ISSN: 2254-0601, di fascia A Anvur). Fa parte dal 2008 del gruppo di ricerca internazionale Seminario Permanente Nietzscheano (SPN) del centro Colli-Montinari come membro del consiglio scientifico ed è componente dell’Italian Organizing Committee (IOC) e della Commissione Budget del 25° Congresso Mondiale di Filosofia (WCP) (Università “La Sapienza”, Roma, 1-8 agosto 2024).
Tra i suoi numerosi libri ricordiamo: Il lavoro della ragione. Dimensioni del soggetto nella Fenomenologia dello spirito di Hegel (Firenze University Press, 2012); Tra Nietzsche e Freud. Soggetto, potere, esperienza del male (Morlacchi Editore, 2012); La costruzione dell’identità politica. Percorsi, figure, problemi (a cura di), (Edizioni ETS, 2012); La visione di Bergson. Tempo ed esperienza del limite (Mimesis, 2015); Victor Egger e Henri Bergson. Alle origini del flusso di coscienza (Edizioni ETS, 2016); Il flusso interculturale. Pragmatismo etico e peso della storia nella filosofia emergente (Mimesis, 2017); Victor Egger (1848-1909). La filosofia spiritualista in Francia tra Ottocento e Novecento (Mimesis, 2020); Il pragmatismo italiano e il suo tempo (a cura di, con A. Zarlenga), (Edizioni ETS, 2020); Nei labirinti dell’esistenza. Scritti in ricordo di Sergio Moravia (a cura di), (Bonanno Editore, 2022).
Ciao Riccardo. Grazie per aver accettato la nostra intervista. Iniziamo da qualche domanda di rito: come ti sei innamorato della filosofia e quando ti sei reso conto che “da grande” sarebbe diventato il tuo lavoro?
Anzitutto va detto che per alcune tipologie di persone – di cui mi sento parte e nello stesso tempo verso le quali avverto un certo debito intellettuale – non esiste un momento preciso in cui scatterebbe l’interesse per la filosofia. Perché si sente, o meglio, si “intuisce” di far parte da sempre di questa “Repubblica ideale”, come la definisce Bergson alludendo a Platone. Si tratta soltanto di un’illusione retrospettiva dell’intelligenza? Non credo. L’intima, profonda, consapevolezza di appartenere alla Repubblica dei filosofi risente tuttavia anche di altri fattori sicuramente più oggettivi, come nel caso di una certa “formazione” ricevuta. Mi riferisco ad esempio al caso del Liceo Classico, che non è soltanto una grande scuola di vita ma anche un grande modello educativo diacronico, che considero parte integrante del percorso formativo di ogni buon filosofo. Durante gli anni del Liceo G. Carducci di Viareggio (luogo in cui ho avuto grandi maestri, soprattutto in storia e filosofia e in latino e greco) le mie prime letture filosofiche furono Aut-Aut di Kierkegaard, seguito dal Manifesto del partito comunista di Marx ed Engels e poi dal Fedro e dal Simposio platonici. Di lì a poco iniziai la lettura di Così parlò Zarathustra di Nietzsche, opera che rivoluzionò radicalmente il mio immaginario. A tutte queste letture e alla didattica, altamente formativa, appresa durante le ore di lezione in classe, va riconosciuto il merito avermi fatto decidere per la Facoltà di Filosofia, e dunque per un nuovo corso della mia esistenza. Perché quando ci troviamo ad operare certe scelte particolarmente significative, non va sottovalutata anche l’incidenza della biografia.
Rimaniamo sulla questione insegnamento, sei stato da una parte e dall’altra di quella cattedra. Quali sono state le difficoltà da alunno nell’apprendere la materia e quali sono quelle, invece, che riscontri nell’insegnarla?
Questa è una domanda molto importante. Da giovanissimo studente liceale ebbi l’opportunità di studiare filosofia su un ottimo manuale, Il testo filosofico di Fabio Cioffi, Giorgio Luppi e Amedeo Vigorelli, volume corredato da ampie sezioni antologiche. Si rivelò uno strumento utilissimo. In classe si leggevano e commentavano anche i testi originali dei filosofi, tra cui ricordo – cosa non da poco – la Scienza della logica e l’Enciclopedia di Hegel. La difficoltà principale, almeno inizialmente, riguardava non tanto il linguaggio proprio della filosofia, ma soprattutto il metodo da apprendere per una corretta analisi degli autori, dei testi e delle correnti, e così pure per la necessaria contestualizzazione storico-storiografica. Disciplina fondamentale la storia. In linea con quanto appreso al liceo, anche all’università di Pisa, presso il Dipartimento di Filosofia, ritrovai centrale lo studio dei testi (erano gli anni di Massimo Barale, Remo Bodei, Giuliano Campioni, Aldo Giorgio Gargani e molte altre personalità autorevoli). Nel ruolo di docente durante i miei primi anni di insegnamento – ho iniziato la didattica accademica a 29 anni come professore a contratto presso l’università di Urbino, appena terminato il dottorato di ricerca in Filosofia all’università di Firenze nel 2011 – negli studenti scoprii la passione della conoscenza e il forte interesse per l’attualità, le quali necessitano del metodo e del rigore nelle analisi. In ogni nostra esperienza conoscitiva, del resto, occorre sempre misurare e ponderare, soprattutto quando siamo giovani, ma è anche vero che ognuno è figlio del proprio tempo e che i destini sono individuali. Questo per dire che la filosofia non è un sapere dogmatico, imposto dall’alto attraverso regole fisse e precetti, ma l’arte di porre le giuste domande, una ricerca e un interrogativo aperti, un percorso complicatissimo (anche esistenziale) in cui mettiamo a frutto la pratica del dubbio sia rispetto a noi stessi che al nostro tempo, alle sue mode e ai suoi eventi più o meno significativi. Con questo non voglio dire affatto che l’uomo, pur partendo da una condizione paradossale, non possa o debba mettersi in cammino verso l’assoluto.
Leggendo il tuo curriculum e le tue pubblicazioni, possiamo annoverare Nietzsche tra i tuoi filosofi “preferiti” e perché?
Certo che Nietzsche fa parte, insieme a Hegel e a Bergson, dei miei autori più cari, per una serie di grandi “ragioni”.
Nietzsche è il pensatore della libertà e della responsabilità, dell’io intimo che si pone alti compiti diventando così un destino. Per realizzare tutto questo, Nietzsche attraversa i sottosuoli della décadence e della malattia per ricercare la “grande salute”. Perché egli sa molto bene, come intuisce Heidegger nei suoi corsi accademici, che “lo sprofondare può essere contrastato soltanto con una elevazione ancora più potente e non mantenendo semplicemente l’altezza fin qui tenuta, perché, alla fine, questo ha come conseguenza il mero esaurimento”. Nietzsche critica la democrazia e il socialismo non perché ama la tirannide e il dispotismo, ma perché avverte il rischio tanto delle derive autoritarie che, come loro diretto corollario, dell’equiparazione degli spiriti più liberi e creativi ai valori più bassi dell’intelligenza. Oggi in sociologia si parla non a caso di “società signorile di massa”, che poi è quella del politicamente corretto ad ogni costo e della cancel culture, ossia della decretata fine dei grandi modelli del passato. Nietzsche è un pensatore profondamente interculturale (o meglio, “transculturale”), difficilmente politicizzabile. Fin dagli anni giovanili (siamo nell’estate del 1876) immagina non a caso pensatori futuri, cito, “nei quali l’irrequietezza europea-americana si combini con la contemplatività asiatica, ereditata nel corso di cento generazioni”, auspicando che gli “spiriti liberi” spazzino via “tutte le barriere che si frappongono ad una fusione degli uomini: religioni, Stati, istinti monarchici, illusioni dei ricchi e dei poveri, pregiudizi igienici e di razza”. Passo non banale. Come egli riconosce espressamente in Schopenhauer come educatore, “questa” filosofia indispettisce i tiranni, proprio in quanto schiude all’uomo un asilo dove nessuna tirannide potrà mai penetrare: “la caverna dell’intimo” e il “labirinto del petto”.
Cerchiamo di fare chiarezza su un quesito evergreen: Nietzsche è un filosofo di destra? Perché viene affiancato ad un tipo di pensiero? Si tratta di verità o di falso mito?
Benché sia ormai fuori di dubbio che alcuni passaggi della riflessione di Nietzsche abbiano riscosso un certo interesse a destra, per esempio in pensatori come Alfred Baeumler o Alfred Ploetz, il medico eugenista nazista che conia l’espressione “igiene razziale”, o piuttosto in personalità politiche come Mussolini, ciò tuttavia non può giustificare in alcun modo la pretesa di far coincidere tutta la sua riflessione con una sorta di “manifesto programmatico” delle ideologie totalitarie del Novecento, come nel caso del nazismo. Credo che Nietzsche non possa essere considerato un filosofo “di destra” sia per ragioni cronologiche (muore a Weimar il 24 agosto del 1900) sia per la natura precipua della sua riflessione e del suo metodo, che, come è noto, attraversano momenti diversi, caratterizzati anche da profondi ripensamenti. Pensiamo ai rapporti ambivalenti e conflittuali con Wagner (e con la sua ideologia dell’arte e del teatro come mobilitazione totale) oppure con la sorella Elisabeth. Pensiamo all’opera postuma Volontà di potenza, che Nietzsche non ha mai scritto e che tuttavia ha fatto molto discutere, proprio a seguito della sua prima edizione nel 1906 ad opera della sorella Elisabeth Förster-Nietzsche e di Peter Gast, diventando a tutti gli effetti un “falso mito”.
Un altro motivo riguarda la natura specifica della sua riflessione, che resta incompiuta, scandita in appunti, aforismi e frammenti, volutamente asistematica. Eppure, ad avviso di alcuni suoi detrattori, dietro l’uso della metafora e di un linguaggio che ama più “suggerire” che “dimostrare”, si celerebbe una precisa intensione sistematica, orientata in larga misura a far prevalere una rappresentazione organica dell’uomo e della Kultur, tutta costruita intorno all’idea della forza, della volontà, dell’allevamento, della gerarchia, e finanche della “selezione”. Inutile ricordare a tal riguardo il debito di Nietzsche verso Spencer e verso un certo “darwinismo sociale”, peraltro all’epoca ampiamente condiviso, ma non è questo il luogo per dilungarsi su tali questioni. Mi interessa piuttosto sottolineare che il ricorso di Nietzsche – in chiave decostruttiva – alla nozione di “verità” ha una funzione prospettica, di orientamento ermeneutico del pensiero e dell’agire, e non di certo “strumentale”.
Parlando di verità e di Nietzsche. Verità è una delle grandi parole della filosofia, quella verità che Nietzsche considerava un’illusione, una delle più grandi menzogne a cui l’essere umano crede. Nell’era delle fake news, come distinguiamo il vero dal falso? Ha ancora senso ricercarla, la verità?
Ho appena evocato la nozione di verità, e non a caso. Oggi stiamo attraversando una fase storica distopica e controversa, in cui sono proprio coloro che veicolano più o meno consapevolmente le menzogne a nutrire la pretesa che esse valgano al pari (o al posto) di certe verità che hanno funzionato per molto tempo come dispositivi di sapere (e di potere). Vedi Foucault.
Oggi la nozione di verità ha perso sicuramente la sua funzione prospettica, di orientamento del pensiero che le riconosceva Nietzsche (pur criticandone la funzione, per così dire, “ideologica”), riducendosi piuttosto ad un’illusione di poco conto, giacché resa equivalente alla menzogna. Ma purtroppo, con il mondo vero non è venuto meno anche quello apparente, con buona pace di Nietzsche. È rimasta la tremenda verità di quello apparente che porta sempre più acqua al mulino della menzogna. Si mente sapendo di mentire, continuando a credere alla verità (e all’utilità) della menzogna. Si lavora quotidianamente per la morte e la distruzione invece che per la vita. Il mondo si sta disumanizzando, soprattutto laddove la democrazia è debole e in pericolo o addirittura non esiste affatto. La critica decostruttiva di Nietzsche aveva comunque previsto anche questi esiti propri del nichilismo “passivo”. Occorre pertanto ricercare una nuova funzione, un nuovo ruolo per la verità e per l’intellettuale, ad esempio nell’interpretazione dei fatti storici a noi più vicini (i quali non sono soltanto interpretazioni). Mi chiedo allora: oggi, l’intellettuale, l’homme d’élite di cui parlava Bergson, può ancora battersi per le grandi cause, con una inevitabile ricaduta politica? Parrebbe di no. Eppure, l’interesse per la verità dovrebbe corrispondere all’esigenza di far valere, soprattutto nella prassi politica, i molteplici significati delle “evidenze” prodotte da una realtà in costante trasformazione, quelle stesse evidenze che la scienza studia per rendere le nostre vite più conformi all’ambiente che ci circonda, e perciò più sicure.
Ultima domanda su Nietzsche. Sei stato ospite poco tempo fa della terza edizione del Festival del Giornalismo e dell’editoria, Libropolis. In un tuo intervento hai parlato di un collegamento tra Nietzsche e Muhammad Iqbal, considerato il “padre spirituale del Pakistan”. Potresti illustrarlo anche ai nostri lettori?
Come ho evidenziato in uno studio recente, Iqbal dimostrò un particolare interesse per la personalità di Nietzsche, in un quadro storico segnato dal colonialismo europeo (inglese). Oltre a Nietzsche, tra le fonti filosofico-letterarie occidentali di Iqbal figurano anche Platone, Aristotele, Dante, Leibniz, Fichte, Goethe, e soprattutto Bergson, al quale Iqbal volle far visita durante il suo secondo viaggio in Europa. Già presente sullo sfondo del suo primo poema, I misteri dell’io, pubblicato nel 1915, la figura di Nietzsche assume una posizione ancor più significativa nel Poema celeste, pubblicato a Lahore nel 1932. Qui Iqbal colloca idealmente Nietzsche alle porte del Paradiso islamico, al confine tra il mondo contingente degli uomini, in cui il tempo scorre come un fiume scandito dagli istanti che si succedono, e quello di Dio immerso nell’eternità. Come il “genio metafisico” della metafisica dell’arte e dell’artista (Iqbal ha ben presente La nascita della tragedia), Nietzsche, con sguardo superiore di aquila, tradisce l’interno ardore del suo cuore con atteggiamento “estatico”, tenendo tra le mani – così ripete a se stesso – “solo un pugno di terra bruciato dalla brama eterna del cuore!”. Perché Nietzsche, prosegue Iqbal nel Poema, “spaccò in due gli Europei con la spada del suo dire”, e soprattutto “nessun compagno trovò alla sua estasi: estatico, lo considerarono pazzo”, per mettere infine “il suo polso in mano a un medico”. “Viandante che si smarrì nel suo cammino”, Nietzsche fu pertanto un “teorico dell’azione”, sebbene di fatto “nessuno lo rese uomo d’azione”. Con la sua ricerca della “potenza divina”, nell’interpretazione di Iqbal Nietzsche si colloca al di là della ragione e della saggezza, leggendo nella vita “il commento dei simboli dell’Io”, non volendo vedere altro che “l’Uomo”, giacché spinto da uno Streben culminante “in quello stadio nel quale ‘germoglia il discorso pur senza parole!’”. L’interesse di Iqbal nei confronti di Nietzsche conferma, per riprendere un’espressione di Wolfgang Welsch (studioso dell’interculturalità filosofica), la natura “transculturale” della sua riflessione.
Passiamo ad uno altro grande della filosofia: Hegel. La dialettica signoria-servitù è il primo momento in cui l’autocoscienza riconosce sé stessa nel percorso che Hegel descrive nella Fenomenologia dello Spirito. È una delle immagini più note del pensiero hegeliano, che ha avuto enorme influenza sul pensiero filosofico e politico post-hegeliano. Nelle società in cui viviamo, dove vedi in atto una dinamica che abbia quella potenza della dialettica servo-padrone? Dove e in che modalità ci ri-conosciamo noi individui del XXI secolo?
Nella Fenomenologia dello spirito di Hegel, al servo viene riconosciuto il diritto di lottare per la vita e per la morte attraverso il lavoro, che è definito, non a caso, “appetito tenuto a freno”. Grazie al lavoro, infatti, il servo rivela al padrone la propria indipendenza potenziale, destinata a restar tale almeno fino a quando il padrone dipenderà dall’“ottuso lavorare” (l’espressione è di Hegel) del servo. Di qui la “lotta per il riconoscimento” tra le due autocoscienze, caratterizzate da interessi chiaramente divergenti. Come corollario, la questione del lavoro appena ricordata chiama in causa (vedi lo sviluppo “concreto” che darà Marx alle tesi di Hegel) i rapporti di forza immanenti al corso storico, mettendo così in primo piano il conflitto tra capitale e lavoro, un conflitto che, ancora oggi, conferma la persistenza di una condizione universale irrisolta, quella appunto del proletariato internazionale sradicato, ridotto a mera forza lavoro. Entro tale cornice, il problema più inaggirabile concerne tutte quelle situazioni di “mancato riconoscimento”, in cui è centrale la riduzione dell’uomo a “forma-merce”.
Vi è poi un “iper-riconoscimento”, profondamente falso ed effimero, veicolato surrettiziamente dalle nuove tecnologie e dall’intelligenza artificiale, vissuto quasi sempre in modalità non autocosciente e perciò passiva, e sulla base di processi automatici che espongono tutti i singoli ad un “iper-controllo” di massa. Mentre, come comunità viva e inclusiva, dovremmo poterci riconoscere in un mondo umano che mette al centro i bisogni e i desideri di libertà delle persone, e non le paure che alimentano forme di servitù volontaria.
La difficoltà del dialogo. Ci fu un tempo, quello dell’ermeneutica di Gadamer e dell’etica del discorso di Habermas, in cui in una sorta di neo-socratismo o neo-platonismo, il contesto dialogico aveva assunto importanti connotazioni etico-politiche per una rinnovata capacità di comprensione interumana. Un’etica salvifica, che sia alla base di tutte le relazioni interumane, a qualsiasi livello, è ancora perseguibile? Qual è il rapporto tra etica e comunicazione?
Parlando della “razionalità procedurale”, Habermas spiega che la filosofia è potuta restare fedele alle sue origini metafisiche fino al momento in cui la ragione conoscente ha ritrovato se stessa o in un mondo già razionalmente strutturato, oppure nel conferire una struttura razionale alla natura e alla storia, “sia nella forma di una fondazione trascendentale” oppure “per via di una penetrazione dialettica del mondo”. Ora, la totalità in se stessa razionale cui allude Habermas in Il pensiero post-metafisico, da un certo momento in poi ha visto implodere la sua forza narrativa e argomentativa che trovava il suo punto d’appoggio nell’autoriferimento, anche linguistico, del soggetto conoscente (vedi il caso di Fichte), facendo spazio ad una pluralità di discorsi, ad una comunicazione in cui il richiamo ai “fatti di coscienza”, al “flusso dei vissuti” è diventato sempre più marginale. Peraltro, va detto, a detrimento del modello dialogico socratico, valorizzato per esempio dall’ermeneutica di Gadamer e ripreso più di recente anche da Martha Nussbaum. Abbiamo così assistito impotenti all’affermazione, divenuta ormai onnipervasiva, dei modelli computazionali, i quali hanno condizionato anche le nostre relazioni dialogiche. Basti ricordare, come efficace risposta “ermeneutico-esistenziale” a tale ordine di questioni, il volume pionieristico di Sergio Moravia L’enigma della mente, pubblicato nel 1989. L’affermazione incontrastata di certi modelli riduzionistici e oggettivanti (in particolare nella definizione della mente e del mentale), pur assecondando precise strategie programmatiche che trovano nella scienza e nella tecnologia il loro punto di riferimento esclusivo, ha finito per vincolarci ad una comunicazione senza etica, incapace per questo di farci assumere e valorizzare, anche sotto il profilo emotivo, il punto di vista dell’altro nella relazione intersoggettiva in cui siamo inseriti (cfr. G.H. Mead). Per non parlare poi del dilagare incontrollato della cosiddetta “intelligenza artificiale”, il cui utilizzo “biopolitico” è sempre più orientato al controllo capillare delle popolazioni mondiali (delle opinioni politiche, dei bisogni, dei desideri, delle paure…).
Per rispondere ancora più sinteticamente, un’etica fondata in modo esclusivo su una razionalità intesa come analisi e calcolo ci porta poco lontano, perché fa leva sul controllo inteso come dipendenza; mentre un’etica basata su una razionalità “dialogica” e “polifonica”, capace per questo di dar voce ai linguaggi espressivi della realtà socio-culturale e biologica, conserva le forme vive del dialogo e del confronto intesi come inter-dipendenza, creando le basi per una sempre maggiore apertura della società democraticamente intesa. Non solo, come ha ben osservato Costantino Esposito nel suo ultimo libro Il nichilismo del nostro tempo, l’appello ad una ragione aperta “affettivamente” all’essere ci consente soprattutto di scongiurare i cattivi esiti del nichilismo, facendoci restare aperti ai diversi “segnali” provenienti dalla realtà complessa che ci circonda.
Abbiamo citato nomi importanti della filosofia, che sono certamente tra i più studiati nel mondo accademico, ma anche tra i più conosciuti nel mondo della cultura per teorie che sono passate alla storia. Ci sono, secondo te, invece, dei filosofi “sottovalutati”, poco conosciuti, anche ingiustamente? Se sì, potresti indicarci qualche nome?
Sì, sono tanti i filosofi caduti nell’oblio per varie ragioni, ad esempio per l’egemonia indiscussa di certe tradizioni storiografiche, oppure per motivi interni alla loro epoca, alla loro carriera, oppure alla loro stessa biografia. Lo si apprende attraverso la ricostruzione storica e teorica, una metodologia di indagine fondamentale, imprescindibile. Occorrerebbe scrivere per questo una storia della filosofia “dimenticata” perché i filosofi a cui ridare voce sono tanti, e in certi casi persino con posizioni teoriche originali. Mi limito a richiamare soltanto due casi coevi. Il primo è un autore assai originale, al quale ho dedicato diversi studi orientati alla sua riscoperta, tra cui una recente corposa monografia: il filosofo e psicologo francese Victor Egger (1848-1909), allievo di Félix Ravaisson, collega di Bergson e professore del giovane Marcel Proust in Sorbona, il primo teorico del monologo interiore e del flusso di coscienza, autore ben noto sia a William James che a Freud. Egger lascia agli archivi, tra l’altro, un originale atelier onirologique che copre un lungo arco della sua carriera (dal 1872 al 1908). Il secondo caso ci porta sul versante dell’idealismo anglosassone della seconda metà dell’Ottocento, in cui scopriamo la vasta produzione del filosofo liberalsocialista David George Ritchie (1853-1903) con il suo valido tentativo di conciliare idealismo hegeliano e darwinismo, e oggetto, merita segnalarlo, di riscoperta in Italia da parte dello studioso Antonio Lombardi, che a Ritchie ha dedicato un ricco volume. La lista potrebbe continuare con molti altri autori. Di recente, per concludere con un altro significativo esempio, è uscito un ottimo lavoro di Francesco Coniglione sulla figura di Francesco d’Assisi, “l’uomo venuto da un altro mondo”.
Il valore della memoria. Il tema della memoria è stato uno dei più navigati nel pensiero filosofico a partire dal ruolo euristico che Platone le attribuisce, fino alle indagini contemporanee della filosofia della mente e della psicologia. Qual è il ruolo della memoria, sia della memoria individuale, che collettiva? Perché spesso sentiamo dire che ci dimentichiamo del nostro passato o ci dimentichiamo della nostra storia, rischiando così di commettere gli stessi errori?
Sviluppando un tema già caro a Platone, come voi giustamente avete appena ricordato, tra gli autori della tarda modernità di cui mi occupo, Bergson è sicuramente uno tra quelli che allo studio della memoria ha dedicato pagine fondamentali, partendo dall’assunto secondo cui la formazione del ricordo è sempre contemporanea alla percezione, come l’ombra al lato del corpo. Percepire è dunque un’occasione per ricordare. In Materia e memoria. Saggio sulla relazione tra il corpo e lo spirito (1896), Bergson impiega l’immagine del “cono rovesciato”, alla cui base sta la “memoria pura”, spontanea, integrale, che “data gli avvenimenti e li registra soltanto una volta”. Ogni processo di percezione e di adattamento – che si conclude appunto “con la registrazione del passato sotto forma di abitudini motòrie” – può sempre allentarsi facendo così spazio alle immagini-ricordo. Queste ultime, si badi, riproducendosi nella coscienza, possono talvolta giungere a “snaturare il carattere pratico della vita, mischiando il sogno con la realtà”. Osservazione di non poco conto, la quale ci indica chiaramente come nella nostra memoria individuale siano sempre inclusi anche i ricordi collettivi collegati ai grandi eventi che hanno segnato le tappe della storia, allo stesso modo in cui ogni momento della nostra vita ha due momenti, uno attuale e uno virtuale, appunto la percezione e il ricordo. Anche perché l’identità umana è come un flusso mobile che dal passato si spinge come una “punta” (l’immagine è di Bergson) verso il futuro. Quando invece dimentichiamo, significa che siamo condizionati dalle esigenze dell’azione concreta, dalle impellenze della vita sociale. Ma per rassicurarci Bergson ci spiega che, malgrado le apparenti cesure, tutto quanto il nostro passato è custodito allo stato latente nella memoria, alla base del cono. Sta a noi poi “selezionare” quei ricordi che possono fungere da supporto per l’azione presente e per il futuro (e magari per non ripetere certi errori del passato), inserendo così nel nostro agire una forma di discontinuità che può liberarci dalle cattive abitudini. Sì, occorre lasciare anche un certo spazio per il nuovo e per l’inatteso, perché qui si mette effettivamente in prova la nostra libertà.
Ogni tanto bisognerebbe vivere come se ci trovassimo immersi in un’assoluta contingenza, perché è qui che si decide il futuro della nostra libertà.
Ringraziamo Riccardo per il tempo dedicatoci e per la preziosa intervista.