Intervista a Marco Mazzocchi: «come ho imparato a raccontare lo sport»
Sport
2 Maggio 2023

Intervista a Marco Mazzocchi: «come ho imparato a raccontare lo sport»

Marco Mazzocchi, telecronista RAI ha assistito ai più importanti eventi sportivi degli ultimi decenni con la passione trascinante dell’appassionato, l’accuratezza del giornalista di prim’ordine e un bagaglio di parole che ispirano sempre storie generative. Lo abbiamo intervistato.

di Gianluca Vignola e Lorenzo Bruno

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Un antico proverbio indiano dice che Dio si rivela agli uomini per mezzo delle storie. E come uomini, ogni giorno, scegliamo ciò che siamo in base alle storie che raccontiamo e alle parole che scegliamo per definire la realtà.
Marco Mazzocchi tutto questo lo sa bene. Da telecronista RAI ha assistito ai più importanti eventi sportivi degli ultimi decenni con la passione trascinante dell’appassionato, l’accuratezza del giornalista di prim’ordine e un bagaglio di parole che ispirano sempre storie generative. Storie esemplari, perché storie di sport.    

Lo abbiamo intervistato.

Come nasce la tua passione per il giornalismo sportivo?

È mio padre ad avermi trasmesso l’interesse, ma credo di averlo avuto insito da sempre.  Dopo il Mondiale del 1978 (avevo 12 anni) mi sono appassionato all’Olanda, ma già prima, da bambino, ero affascinato dalla figura dei calciatori olandesi, soprattutto di Cruijff (che quel Mondiale del 1978 in Argentina non lo giocò). Cominciai a tifarla veramente tanto e, quando giocavo per strada, nel quartiere Flaminio di Roma con i miei amici, ricordo che facevo la telecronaca della partita mentre giocavo. Mai avrei pensato che la mia carriera sarebbe diventata quella.

Qual è un ricordo o un aneddoto che ti ha toccato particolarmente in tutta la tua carriera giornalistica?

Ho avuto la fortuna e anche il coraggio di diversificare molto i miei ambiti di interesse, perciò tutte le cose che mi hanno incuriosito e sono state anche soltanto parallele allo sport, mi hanno colpito. L’esperienza che mi è rimasta impressa più di tutte è stata quella fatta sul K2. Non è una performance propriamente sportiva, ma dal punto di vista professionale, nel 2007, ho raccontato questa spedizione finita per altro in maniera non felice e facendone addirittura un documentario. Ho un ricordo quotidiano di questa vicenda molto emozionante.

Abbiamo parlato del giornalismo di “ieri”. Cosa ne pensi delle potenzialità dei mezzi di comunicazione odierni e del mondo sportivo-giornalistico di oggi?

Credo che la radio riuscirà a mantenere un suo fascino incancellabile. A differenza di ciò che dice il brano degli anni ’80 “Video Killed the Radio Star”, questo non è avvenuto. Ritengo che la radio sia un mezzo immortale.

Riguardo al racconto sportivo, esso sta evolvendo verso una dimensione più fredda e personalistica: ognuno se lo ritaglia per se stesso, quindi certamente si ha una serie di scelte molto più ampia rispetto al passato, ma la scelta del linguaggio dipende esclusivamente da quanto engagement e like produci. È sicuramente un giornalismo meno popolare, meno romantico.

Se ci riferiamo al calcio è assolutamente così, anche perché gli stessi protagonisti di questo sport sono inavvicinabili e fanno loro i giornalisti di loro stessi attraverso i social media, i loro profili.

È una narrazione diversa, quelli della mia generazione faticano ad abituarcisi, però è comunque affascinante.

Come professione è evoluta: i giovani di oggi hanno una soglia dell’attenzione bassissima, quasi non guardano più le partite e vanno direttamente agli highlights.

Saper raccontare ai giovani lo sport sapendo queste criticità, a me piace, mi diverte, a prescindere. È certamente un’altra cosa quando parliamo, ad esempio, di ciclismo e pallavolo: due sport che ancora sanno raccontarsi in maniera molto romantica.

Hai mai avuto personaggi di riferimento giornalistico, non necessariamente sportivo, che hanno segnato un solco importante nella tua carriera professionale?

Eccetto mio padre, devo molto ad Aldo Biscardi. È stato il primo a darmi fiducia e aveva un senso della notizia unico. Per quanto riguarda il rigore del racconto e l’attenzione al linguaggio dico Sandro Petrucci. Sulla conduzione Gianfranco De Laurentis e sul modo di stare sul campo “Bisteccone” Galeazzi; un faro. Ironico, autoironico, capace di buttarsi sempre all’avventura, di non prendersi troppo sul serio. Sono tutte persone che, anche non volontariamente, mi hanno insegnato qualcosa: mi piace pensare di essere una summa di tutti loro, fa piacere sapere che qualcosa da loro ho imparato.

Delle nuove generazioni, non mi piace molto il prendersi eccessivamente sul serio, dandosi un’aura di santità e importanza che, francamente, è fuori luogo.

Facciamo un focus sul calcio: qual è stata la manifestazione, l’evento o proprio la partita che ti è rimasta più nel cuore, sia professionalmente che personalmente?

Ero allo Stade De France quando perdemmo nel 1998 con l’Italia di Di Biagio che sbagliò il rigore decisivo. Ricordo la mattina dopo, quando incontrai Gigi, mi raccontò di aver passato una notte infernale che si ripropose due anni dopo agli Europei in Olanda: fu una dinamica molto simile, che però ha trovato la sublimazione nel 2006, in Francia. Soltanto la prima vidi dal vivo, le altre due le ho commentate in studio, ma il senso di svuotamento della prima gara lo ricordo ancora vivido.

Pensiamo spesso che in questi grandi eventi (come le finali mondiali…) i giocatori protagonisti sul campo posseggano un’enorme tensione, ma dal punto di vista del giornalismo quanto peso c’è? Vivete la stessa trance agonistica dei giocatori?

C’è, perché la partita la gioco anche io. Se l’Italia vince sono contentissimo da italiano, ma da commentatore sono testimone di un racconto epico. Il Mondiale del 2006 mi sento quasi di averlo vinto anche io, perché c’ero. Una comunicazione responsabile deve stringersi attorno a chi racconta, senza alimentare polemiche giornalistiche sterili. Ho una visione responsabile appunto, se partecipo ad un evento “embedded”, devo schierarmi, fare il tifo per la nazionale in questo caso. Devo però mettere da parte il mio spirito polemico, magari, “stringendoci a coorte” e provare a vincere il Mondiale, cosa accaduta proprio nel 2006.

C’è stato un momento, durante la tua gavetta, in cui hai pensato di mollare tutto?

Le persone della mia generazione hanno avuto la fortuna che il lavoro non mancasse. Questa sensazione non l’ho mai provata, sono sincero. Con un pizzico di presunzione, mi ritenevo capace di farlo e sono una persona che ha sempre lavorato e si è rimboccata le maniche. Non ci ho mai pensato, sia per dinamiche familiari, sia per un po’ di talento, sia per volontà di conoscere, sapevo quale fosse la mia strada. Ho fatto sacrifici importanti, sapendo che, però, stavo investendo nel mio futuro. Magari, alcune volte, pensavo “ma chi me lo ha fatto fare di seguire questa partita di pallamano, di ping pong…” quando tutti i miei amici andavano ad una festa di sabato sera, però, in generale, ci ho sempre creduto ed è una cosa che devono fare anche, e soprattutto, i ragazzi di oggi, che hanno più potere di creare cose nuove rispetto a noi.