Oltre il punto vista: C’è chi non sa, e chi si limita ad usare Wikipedia
Immaginate di essere collegati cerebralmente con la rete, di potervi collegare e Wikipedia o ai social con la velocità del pensiero; sarebbe un come consultate la propria enciclopedia personale nella vostra memoria.
Mi sono chiesto, questa fantascientifica possibilità, vi aiuterebbe a capire meglio ciò che è vero e ciò che lo sembri?
È di certo un sistema di accesso alle informazioni più veloce ma non significa che sia più affidabile, né che tutti lo interpretano allo stesso modo, e né che voi sareste migliori nel valutarlo; potreste essere anche peggio. Più dati da valutare, meno tempo per essere accurati.
Già in questo momento, ad esempio, ci portiamo un universo di informazioni nelle nostre tasche.
Questa consuetudine mi dà l’idea che maggiore sono le informazioni condivise e che consultate on line, più è complesso distinguere ciò che è reale e ciò che non lo è. Non trovate?
Come se “sapessimo” di più, ma “comprendessimo” di meno.
Credo sia una costante nell’era delle IT (information tecnology); gruppi di informazioni che ci accentrano non solo sui valori, su ciò in cui crediamo, ma sui fatti , o per quelli che passano da tali.
Considerando la nostra ricerca di dati, si constata che è una ricerca prettamente personalizzata nella nostra vita on line; dalla pubblicità, dalle news di Facebook, dalla musica di YouTube, dalle foto di Instagram. Tutto combacia le nostre preferenze.
Nel momento in cui scarichiamo informazioni, le stesse informazioni riflettono noi stessi, cosi come fa la realtà.
Non è strano, pensandoci su, che ci troviamo in una situazione paradossale nel pensare di sapere molto di più senza sapere di essere d’accordo su ciò che sappiamo?
Al che la domanda: come riusciamo a risolvere questo” focus” sulla conoscenza?
Potremmo provare a ritoccare la nostra tecnologia informativa, rimodellando le piattaforme digitali. Tra l’altro è proprio un lavoro che in questo momento è in corso di elaborazione tra le più grandi società informatiche del mondo.
Ma credo non basti.
Credo che non sia solo un dilemma tecnologico. Penso che sia un “atrofia umana”, che a che fare col modo in cui pensiamo e ciò a cui diamo importanza.
Per risolvere il focus della conoscenza, credo bisognerebbe “ricollegarci con una idea filosofica fondamentale: viviamo in una realtà collettiva.
L’idea di una realtà collettiva è facile da affermare ma più complessa da mettere in pratica. Per accettarla, credo dobbiamo fare 3 cose in particolare; la prima: credere nella verità.
Avrete notato che l’attuale sistema culturale abbia una specie di relazione difficile con questo concetto. Se fossimo cosi in disaccordo, come affermò un celebre opinionista tempo fa, non ci sarebbero più fatti. Questo pensiero sembra essere una deliziosa discussione campata in aria, nel senso, spesso non riusciamo a veder al di là dei nostri orizzonti, ad uscire dai nostri pregiudizi ed, ogni volta che proviamo ad uscirne, riceviamo molte informazioni dal nostro orizzonte.
Persiste una continuità di questa idea. Si potrebbe addirittura constatare che la verità oggettiva è un’illusione perché non sapremmo mai che cos’è, ritenendo che non esista sin dall’inizio.
Nulla di nuovo sullo scetticismo nei confronti della verità, pensando ai filosofi greci, Protagora ad esempio, sosteneva che la verità oggettiva era un illusione, poiché l’uomo è la misura di tutte le cose. Questo pensiero permette senz’altro di creare le proprie verità, ma detta in forma spicciola, penso sia un modo per riordinare un egocentrismo camuffato da perla filosofica.
Confonde la difficoltà della certezza con l’impossibilità della verità
Ovviamente è difficilissimo essere sicuri di ogni cosa; anche se in pratica siamo d’accordo su quasi ogni tipo di verità: siamo d’accordo che respirare sott’acqua è impossibile; siamo d’accordo che mangiare sempre del cibo fritto danneggia il fegato; siamo d’accordo, o dovremmo esserlo, che esiste una realtà esteriore e ignorarla può danneggiarci.
Nonostante tutto, lo scetticismo sulla verità può essere allettante, perché ci permette di porre una logica sui nostri pregiudizi. Un po’ come “NEO”, nel celebre film “Matrix “che sapeva di vivere in una finzione cognitiva, ma scelse inizialmente che gli piaceva comunque.
In fondo ottenere ciò che si vuole fa star bene, no?
Quindi è spesso più rassicurante nasconderci nelle nostre comode e fantastiche informazioni, viverle in ipocrisia, e prendere quei dati come unità di misura della realtà.
Un esempio pratico, su come questo gesto di disonestà si insinua nelle nostre azioni, è la reazione che abbiamo nel momento in cui assistiamo a delle false notizie. Come la rinomata notizia del microchip sottocutaneo, argomento che si è ripercosso su tutta la rete, di installare questo chip per il controllo delle menti. Notizia scalpitante per le ossessioni di qualche catastrofista, che nonostante tutto, ha il solo scopo di confermare o alimentare i nostri preconcetti.
Il fatto straordinario di questa bufala, non è solo che prese in giro molta gente, ma diventò molto rapidamente il soggetto nevralgico della polarizzazione dell’informazione.
Penso che il fatto davvero pericoloso, cari lettori, dello scetticismo riguardo la verità, e che porti verso un estremo, detto dispotismo.
Un come dire: “ogni uomo per sé”, o: “solo il più forte sopravvive”.
Alla fine del romanzo di Orwell, “1984”, il poliziotto dei pensieri di O’Brien tortura il protagonista Winston Smith, per fargli credere che 2+2 fa cinque. Il punto è quello che dice O’Brien, ossia, vuole convincere Smith che tutto ciò che il partito dice è la verità, e la verità è tutto ciò che il partito dice.
Quello che sa O’Brein è che una volta accettato questo pensiero, diventa inaccettabile una contestazione critica.
Non puoi parlare di verità con il potere Se il potere detta la verità.
Per accogliere il fatto che viviamo in una realtà collettiva, come seconda cosa, possiamo trovarla nella frase latina che Kant usò come motto dell’illuminismo: “Sapere Aude”.
Osa Sapere
Penso che nei primi anni del network, molti di noi credettero che la tecnologia dell’informazione avrebbe reso semplice l’atto di conoscere per proprio conto, e in molte occasioni l’ha fatto.
Ma siccome internet è diventato sempre più parte sostanziale delle nostre vite, l’attendibilità e l’uso che ne facciamo sono diventati più passivi. Molto di quello che sappiamo proviene, ad esempio, da Google no?
Scarichiamo insiemi di fatti preconfezionati e li trasciniamo lungo la facciata dei social.
Non vorrei gettare fango su un motore di ricerca che rimane una risorsa utilissima, ove incentriamo le nostre energie sua una rete colma di algoritmi e metodiche di ricerca.
Questo ci consente di non sovraccaricare la nostra mente con qualsiasi notizia, potendoli scaricare al momento del bisogno. Ed è grandioso!
Ma c’è una differenza tra accumulare una serie di eventi e comprendere sul serio come e perché quegli eventi sono come sono
Comprendere perché una certa malattia si diffonde, come funziona un tipo di automazione meccanica, o perché un tuo amico è depresso.
C’è di più del semplice buttar giù dei file; si necessità di compiere un lavorio autonomo: avere dell’intuizione in senso creativo; usare la propria immaginazione; fare esperimenti; ricavare dimostrazioni; parlare con qualcuno.
Non dico di smettere di usare la rete come mezzo per ricercare informazioni, ma di essere più accorti. Credo che dovremmo trovare modi per incoraggiare forme di conoscenze più attive.
Delle volte soffermarsi superficialmente su quello che scoviamo, magari in un momento della giornata con il nostro smartphone , finisce per divenire una sorta di acquisizione circoscritta , vale a dire , trovare sempre la ragione.
Ma osare sapere, osare capire, significa rischiare di non avere ragione
Significa rischiare , che ciò che vuoi e ciò che è vero siano due cose diverse. Da qui la terza cosa se vogliamo accettare di vivere in una realtà collettiva: l’umiltà.
Un umiltà “epistemica” che tradotto vorrebbe dire in questa circostanza: “sapere di non sapere”. Ma credo possa significare anche di più.
Significa vedere la propria visione del mondo aperta al miglioramento grazie, non solo al proprio lavoro per se, ma anche a dimostrazioni e esperienza altrui.
Penso che questa visione sia più che essere aperti al cambiamento, più che essere aperti al miglioramento personale, significa guardare con i propri occhi il verificarsi del progresso della propria conoscenza anche attraverso il contributo altrui.
Riconoscere infine che esiste una realtà collettiva, il quale siete responsabili anche voi.
Quando mi guardo allo specchio, e chiedo a me stesso:” qual è il motivo per il quale ti alzi da letto al mattino?” mi rispondo, oramai da un po’, sempre nello stesso modo: “se tu hai delle capacità, hai compreso un insegnamento, e non le usi o condividi per il bene collettivo, e poi succede qualcosa di brutto, succede per colpa tua”.
Non credo di essere eccessivo affermando che la nostra attuale società non è così in gamba a valorizzare o incoraggiare questo tipo di umiltà. Dovuto in parte al fatto che tendiamo a confondere la superbia con la sicurezza di sé.
Può dipendere dal fatto che la superbia è comoda da manifestare. Comodo credere di saper tutto.
Ma questo è solo un altro esempio della malafede verso la verità.
Quindi il concetto di realtà collettiva, come molti concetti filosofici, può sembrare cosi ovvio, che possiamo passargli davanti e scordarci perché è importante.
Le democrazie non funzionano se i cittadini non si impegnano per vivere le realtà collettive almeno un po’ di tempo. Uno spazio dedicato nello scambio e condivisione di idee, specialmente quando sono in disaccordo
Ma non ci si può impegnare a vivere questo spazio se non di accoglie il concetto di condividere una stessa realtà.
Per accoglierlo, dobbiamo credere nella verità, dobbiamo animare modi di sapere più partecipativi; e dobbiamo avere l’umiltà per renderci conto che non siamo la misura di tutte le cose.
Un giorno forse potremmo realizzare la visione di qualcosa di comune ed unanime, che ampli il nostro io e che non si fermi ad associazioni passive. Dobbiamo ricordarci che i nostri orizzonti, così meravigliosi e belli come sono, fanno parte di un’unica realtà condivisa.
Un giornalista disse: la pioggia è un po’ come la conoscenza: molti ne sembrano infastiditi, al minimo accenno scappano e cercano conforto al riparo di un balcone, perdendosi l’emozione di un bacio sotto quelle candide gocce per il timore di un raffreddore.