DA TIZIANO A CANALETTO | L’approccio coloristico della scuola veneta

Il differente approccio degli artisti veneti rispetto all’accademia toscana, in una mostra di studio realizzata in collaborazione con l’Ashmolean Museum di Oxford, che contribuisce con ben sedici prestiti. Fino al 15 gennaio 2017, al gabinetto Disegni e Stampe della Galleria degli Uffizi. www.uffizi.it.
FIRENZE – In Italia, nemmeno la storia dell’arte sfugge alle polemiche e alle contrapposizioni, più o meno sfumate e benevole. Scorrendo la china dei secoli, e tralasciando le violente diatribe fiorentine tra Futuristi e “vociani” nel 1911, scopriamo la ben più diplomatica contrapposizione fra due differenti maniere d’intendere il disegno appartenenti rispettivamente alla scuola toscana e alla scuola veneta, quest’ultima tacciata da Giorgio Vasari di nascondere «sotto la vaghezza de’ colori lo stento del non saper disegnare».
Un giudizio poco benevolo, messo nero su bianco durante la compilazione della biografia di Tiziano Vecellio per l’edizione delle Vite del 1568; un giudizio che toccava anche Giorgione, Palma il Vecchio, Pordenone, e gli altri esponenti della scuola veneta, che avevano sviluppato nel disegno un diverso rapporto fra linea e colore, rispetto ai canoni dell’Accademia fiorentina. Infatti, nel 1563 era nata a Firenze, su consiglio dello stesso Vasari e per volere di Cosimo I de’ Medici, l’Accademia delle arti del disegno, che adesso l’aretino, con una discreta punta di campanilismo, assurgeva a modello di riferimento per l’arte italiana.
La severa e sobria Firenze rinascimentale (che non aveva del tutto smessi certi caratteri di medievale asprezza) si rispecchiava anche nello stile dei suoi artisti; la divina proporzione architettonica d’ellenistica memoria ritornava nel disegno, inteso, a detta di Francesco Bocchi nel commentare le opere di Andrea del Sarto, come l’insieme delle « linee che circoscrivono e racchiudono corpi e forme che, dipinte o in rilievo, rappresentano, per mezzo di quelle linee, la sua essenza e la sua perfezione».
Si comprende quindi come il concetto di linea fosse di capitale importanza, come non si ammettessero sbavature, e soprattutto come il colore fosse da applicare in campi ben circoscritti e delimitati. La prospettiva, infine, era una questione di linee. in realtà, esistevano eccezioni alla regola, lo sfumato di Leonardo da Vinci, ad esempio, veniva meno alla precisione della linea invocata da Bocchi. Tuttavia, Vasari si sentiva in dovere di difendere la tradizione toscana, cui riconosceva, arbitrariamente, una certa superiorità su quanto accadeva in Veneto.
Nel Cinquecento (inizio dell’arco temporale coperto dalla mostra) Venezia era ancora una grande potenza marittima, e se la recente scoperta dell’America l’aveva tagliata fuori dai commerci occidentali, le restavano comunque un esteso impero e numerose enclave orientali da cui attingere. Da questa sua apertura a Oriente, la Serenissima aveva assorbita una certa magnificenza, riscontrabile nelle architetture e nello stile di vita (almeno dell’aristocrazia), unita a una polverosa solarità che faceva della città un grandioso teatro a cielo aperto. E non è certamente un caso che proprio qui nasca la commedia dell’arte, con l’ironica e insieme tragica maschera di Arlecchino, e che gli artisti si sentissero parte di una città a suo modo completamente diverse dalle altre, sospesa fra terra e acqua, così come fra Oriente e Occidente. Naturale che i suoi artisti sviluppassero una differente maniera d’intendere il disegno, non in antitesi, ma a fianco della tradizione accademica fiorentina.
Dopo la mostra generale, con oltre cento opere in sezioni storicamente contestualizzate, al Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffici la direttrice Marzia Faietti cura una piccola ma raffinatissima seconda versione dall’emblematico titolo La rivincita del colore sulla linea; da Giovanni Bellini a Vittore Carpaccio, da Tiziano Vecellio a Guardi e Canaletto, un arco temporale di tre secoli per far luce su questo diverso approccio.

In Veneto infatti, è il colore l’elemento da cui partire per giungere al disegno, e la differenza dei toni che spesso crea la forma, il contrasto fra ombra e luce, fra chiaro e scuro. Da un lato, sicuramente una minore accuratezza formale, ma dall’altro, questo rifiuto dell’accademia consegna all’osservatore un’immagine più vivace, più dinamica, quasi ci trovassimo davanti a una scena teatrale. Dai Bassano a Canaletto, passando per Tiepolo e Tiziano, il disegno veneto affascina per la sua modernità formale, per l’indagine di sguardi ed espressioni, ma anche per la schiettezza delle scene di piazza o di strada.

Si scopre quindi, scorrendo la mostra fiorentina, la funzione del disegno nel metodo degli artisti veneti; quella preparatoria, certo, ma anche d’indagine e di studio sulla figura, affiancata all’esercizio del “colorito”, che all’apparenza portava “disordine” all’occhio dell’osservatore, se prendiamo in esame i rigidi canoni fiorentini. In realtà, come poi universalmente riconosciuto, non si tratta d’imperizia ma di ridefinizione dello stile: l’intenso Ritratto di giovane donna (1515) di Tiziano (1485 ca.-1576), ci restituisce la carnalità e la modesta di una ragazza veneta del popolo, dalle forme generose e sobriamente abbigliata. Guardandola, sovviene l’immagine delle popolane che Goldoni porterà sul palcoscenico due secoli dopo; vi si legge infatti la medesima vivacità, nella treccia appena scompigliata che tradisce la timidezza dello sguardo. Niente di più lontano dall’inaccuratezza cui gridava Vasari.

Allo stesso modo, il giovane ritratto a gessetto e carboncino da Giovanni Battista Piazzetta (1682-1754) si distingue per l’uso di questi materiali granulosi su una carta particolarmente fibrosa; ancora di più suggerisce l’idea del bozzetto teatrale, quasi un particolare di una scenografia. L’immagine infatti ha in sé il carattere del bozzetto narrativo, che trova nella vivace Venezia il suo naturale ambiente.
La contaminazione con il lontano (all’epoca) Oriente, la si ritrova nello Studio di giovane con turbante di Jacopo da Bassano (1510 ca.-1592), eseguito con il gessetto. Elemento dominante, il turbante rosso di moresca memoria, indossato ancora una volta da un giovane popolano visto di spalle, forse il soggetto di un successivo dipinto a tema biblico. Il tratto rapido del gessetto nero traccia con diligenza l’abbigliamento, il drappeggio sul corpo del giovane e l’elaborata plissettatura posteriore delle falde. Un tratto vigoroso, “sanguigno”, che ancora una volta ha il sapore del bozzetto narrativo. A differenza, infatti, dei disegni raffaelleschi o michelangioleschi, così eccellenti da apparire divini, la scuola veneta mantiene sempre uno stretto rapporto con la dimensione terrena, anche nella ritrattistica aristocratica.
Anche il paesaggio è protagonista nella visione dei pittori veneti, e la splendida Venezia è ovviamente la protagonista; Francesco Guardi (1712-1793) e Antonio da Canal (detto il Canaletto, 1697-1768) sono stati fra i vedutisti di maggior fama e talento. Nella sua Veduta della Laguna con l’isola di San Michele, Canaletto ci restituisce il fascino di una città costruita sull’acqua, di cui ricrea l’eterno tremolio, e quasi sembra di percepire lo sciacquio prodotto dalle barchette dei pescatori e dalle gondole di passaggio. Un panorama sospeso fra cielo e mare, dove domina un grigio quasi azzurro, che nelle sue varie tonalità crea le nuvole stagliate nel cielo, le macchie sull’intonaco del muro di cinta e del palazzetto, così come i riflessi nella laguna placida. Tratto ben più dinamico nel Chiostro veneziano del Guardi, dove la struttura architettonica è lo sfondo grandioso per figure umane appena abbozzate con l’inchiostro, quasi fossero le ombre di se stesse. Un’opera interamente giocata sul contrasto luce/ombra, che evoca la pace e il silenzio dei conventi veneziani.
Attraverso tre secoli di storia dell’arte, dal Cinquecento al Settecento, la mostra fiorentina si concentra su una scuola artistica ingiustamente tacciata di “imperizia” dall’orgoglioso Vasari, ma che invece, distaccandosi dall’accademia fiorentina, ha contribuito ad arricchire l’arte italiana.
L’allestimento ha un carattere particolarmente intimo, con una pannellatura continua in legno di ciliegio che suggerisce il calore delle pareti rivestire dello studio di un privato collezionista, che, assorto, ammira questi delicati capolavori. La scelta di accostare disegni dalle differenti cornici, così come le dimensioni, toglie alla mostra il carattere museale e la inquadra in una lezione privata di storia dell’arte, di cui ciascun visitatore può approfittare.