Borgiotti e Piceni: due vite, due collezioni

Il Centro Matteucci di Viareggio omaggia i due critici e riscopritori del secondo Ottocento italiano, che hanno dedicata la propria vita all’amore per l’arte. www.centromatteucciartemoderna.it

VIAREGGIO (Lucca) – Una collezione si sviluppa nel tempo come una sorta di diario personale, è specchio del proprio essere e ne racconta aspirazioni e sfumature. Lo si comprende in maniera particolare ammirando i dipinti provenienti dalle raccolte di Mario Borgiotti (1906-1977) ed Enrico Piceni (1901-1986), gentiluomini e intellettuali della vecchia scuola, che hanno sublimato la loro esistenza nell’amore per l’arte, in particolare l’arte italiana del secondo Ottocento, della quale sono ancora oggi considerati i primi riscopritori e divulgatori nell’Italia del secondo Dopoguerra. A loro rende omaggio la mostra L’Ottocento aperto al mondo. Il tempo di Signorini e De Nittis nelle collezioni Borgiotti e Piceni, curata da Claudia Fulgheri e Camilla Testi, e ospitata al Centro Matteucci per l’Arte Moderna, fino al 26 febbraio prossimo, e che sarà poi allestita a Torino allo Spazio Ersel dal 16 marzo al 30 aprile 2017.
Per fare la storia dell’arte, sono necessarie tre figure: l’artista, il critico, e il mercante. Il critico, che non raramente è anche collezionista, si trova tuttavia molto spesso relegato in secondo piano, invisibile nelle mostre d’arte, nonostante abbia contribuito in maniera considerevole alla fama degli artisti che stiamo ammirando. La mostra voluta da Giuliano Matteucci, nasce appunto per raccontare, attraverso i dipinti da loro raccolti, due figure critiche di rilevante importanza per la valorizzazione dell’arte moderna italiana recente, in particolare i Macchiaioli e i cosiddetti Italiens de Paris; sono stati infatti i numerosi volumi a loro dedicati da Borgiotti e Piceni a farli tornare in auge nell’Italia degli anni Cinquanta, e a far partire un percorso di riscoperta che non si è più fermato. È importante quindi soffermarsi a capire e apprezzare lo spessore di queste due figure, che con stile, competenza, umiltà e passione, hanno saputo comunicare all’Italia e al mondo la grandezza di artisti che l’ubriacatura delle Avanguardie aveva lasciati da parte.

Il loro è stato un percorso divergente eppure parallelo, non scevro di una sottesa, cavalleresca, rivalità, mai sfociata del resto in volgari teatrini cui invece ci hanno abituato tanti moderni arlecchini televisivi che usurpano il nome di critico d’arte. Le loro strade s’incrociarono a Milano, nella centralissima via Manzoni, dove entrambi ebbero lo studio-atelier, frequentati dall’intellighenzia cittadina, ma anche internazionale.
Mario Borgiotti nasce nel 1906 a Livorno, dove respira l’aria dei Macchiaioli, in particolare di Fattori, allora ancora vivente, e sin dall’adolescenza è attratto dal mondo della pittura, al punto che, appena quindicenne, entra in contatto con il Gruppo Labronico di March, Natali, Liegi, e altri. Autodidatta, avviò l’attività di promotore organizzando nel ’27 a Pisa, la prima mostra dedicata alla pittura livornese e dell’Ottocento italiano, anche grazie all’aiuto di Mario Galli, conosciuto poco prima, e considerato “il più acuto intenditore dei Macchiaioli”. All’attività amatoriale di pittore (dipinge numerosi ritratti di artisti, musicisti e intellettuali), affianca appunto quella di mercante e divulgatore della pittura naturalista e macchiaiola, in un periodo dominato dal Futurismo, dal “ritorno all’ordine”, dal Modernismo. Emerge quindi, in questa attività, tutta la “fede” che Borgiotti riponeva nella bellezza della pittura macchiaiola. Nel 1938 si trasferisce a Firenze, dove entra in contatto con l’intellighenzia delle Giubbe Rosse, dove conosce fra gli altri Papini e Parronchi, quest’ultimo fra i più importanti storici dell’arte dell’epoca, ma non solo. Passata la tragedia della guerra, che vede Borgiotti sfollare sull’Appennino, già nel 1946 organizza a Palazzo Pitti, a Firenze, una mostra di pittura macchiaiola, esponendo opere della sua collezione personale messa insieme negli anni passati, e pubblica l’importante volume I Macchiaioli, testo fondamentale per la riscoperta di questi artisti nell’Italia del Dopoguerra. Nei decenni successivi, seguiranno altri importanti volumi, fra cui Opere inedite dei Macchiaioli (1952), e il tomo a loro dedicato nella collana I grandi pittori dell’Ottocento italiano (1963), e una serie di mostre in Italia e non solo, fra cui quella, nel 1956, celebrativa del centenario della Macchia, a Roma, con Palma Bucarelli, e quella del 1963 a Montecatini Terme, dal suggestivo titolo Macchiaioli Toscani d’Europa, che sarà poi allestita anche negli Stati Uniti d’America. Una mostra che fa capire come Borgiotti avesse compreso l’ampio respiro di personalità come Borrani, Sernesi, Fattori, ardenti patrioti e combattenti per la libertà. Sempre nel ’56, si trasferisce a Milano, da dove continua di critico e riscopritore del secondo Ottocento pittorico italiano. Morirà a Firenze nel 1977.

Percorso differente seguirà Enrico Piceni, prima di avvicinarsi al mondo dell’arte. Nato nel 1901 da un’agiata famiglia milanese, nei primissimi anni Venti è collaboratore di numerose riviste culturali, per le quali scrive critiche musicali e teatrali, e nel 1925 è assunto dalla casa editrice Mondadori in qualità di capo-ufficio stampa. In realtà, ricopre mansioni ben più estese, occupandosi di traduzioni di grandi classici della letteratura anglosassone (Via col vento, Cime tempestose, David Copperfield), ed è anche l’ideatore delle collane Medusa, e i Gialli Mondadori. Appassionato collezionista d’arte, conosce casualmente a un’asta, nel 1929, Angelo Sommaruga, già editore della Cronaca Bizantina, e adesso gallerista e mercante d’arte fra i più importanti d’Europa, di base a Parigi, qui aveva conosciuta la vedova di De Nittis, e contribuì in maniera sostanziale a farne conoscere l’opera in Italia. Oltre a lui, s’interessò anche agli altri Italiens de Paris, in particolare Zandomeneghi, Macchiati, e Boldini, in anni nei quali l’Italia era ancora assorbita dalla seconda fase dei Futuristi, e dal ritorno all’ordine predicato da Soffici. Sommaruga intuì il valore e la preparazione di Piceni, e ne fece il suo più stretto collaboratore, il cui esordio nel mondo dell’editoria artistica fu la monografia Zandomeneghi, nel ’32, cui seguì quella dedicata a De Nittis nel ’34, edite da Mondadori. Nel Dopoguerra, pur continuando l’attività di giornalista per testate quali Candido (diretto da Giovanni Guareschi), e il Corriere d’Informazione, rafforza la sua presenza nel mondo dell’arte redigendo importanti saggi e cataloghi (fra cui quello ragionato delle opere di De Nittis nel ’63), e organizzando mostre quali Boldini a Parigi, nel 1959 a Firenze, o l’antologica del pittore ferrarese al Museo Jacquemart-André a Parigi nel 1963, o ancora quella dedicata a Zandomeneghi nel cinquantenario della scomparsa (1967), ancora a Parigi. Per tutti gli anni Settanta, fino alla metà del decennio successivo, continua instancabile l’attività di critico e studioso della pittura dell’Ottocento italiano, dividendosi fra mostre e pubblicazioni. Scompare a Milano nel 1986, dopo una lunga vita dedicata all’arte.
A queste due eminenti e raffinate figura, rende omaggio la piccola ma raffinatissima mostra voluta da giuliano Matteucci, che in quarantatre opere racchiude due universi umani e intellettuali, due approcci differenti eppure vicini, votati alla riscoperta dell’arte italiana del tardo Ottocento, fra la Penisola e Parigi. Due uomini che si potrebbero definire altrettanti connoisseurs, dalla vasta cultura e amanti del bello, lontani per mentalità dal chiasso dell’avanguardia Futurista; uomini dotati di libero arbitrio, di senso critico e spirito d’osservazione, differenti nelle scelte specifiche, ma prossimi nel metodo e nei concetti. Costruiscono infatti la loro carriera di critici e collezionisti all’interno del medesimo periodo artistico, privilegiandone però due aspetti differenti: Borgiotti è sobrio e parsimonioso toscano, legato alla civiltà contadina, amante della natura, della campagna e del silenzio contemplativo, assorbito dai malinconici paesaggi maremmani di Giovanni Fattori. Piceni è borghese di città, legato al bel mondo, e per questo più adatto ad apprezzare le raffinatezze parigine di Boldini e Zandomeneghi. L’allestimento della mostra si caratterizza anche per il diverso sfondo che accompagna le opere dei due collezionisti: un sobrio e meditativo verde per Borgiotti, che richiama la natura e il silenzio, un più luminoso giallo oro per Piceni, dalle tenui sfumature albicocca, che rimanda agli ori della grandeur parigina, e all’incarnato delle sue dame.
La collezione Borgiotti è aperta dalle tele di Fattori, che ne riassumono la parabola artistica: i Tre artiglieri (1859), sono l’incunabolo della pittura macchiaiola, dove la sintesi del vero tocca l’apice attraverso una serie di giochi cromatico-tonali. I colori prevalentemente scuri, risaltano grazie a un sapiente utilizzo di luci e ombre,mentre il taglio pittorico è declinato sull’essenzialità del segno. Su corde simili Paese e case con cielo bianco (1861), mentre Barrocciai (1880), già precorre buona parte della successiva pittura italiana, anticipando Ottone Rosai nella sobrietà delle linee architettoniche, e Lorenzo Viani nella malinconia delle figure di spalle, con cappelli a larghe tese, e i lunghi mantelli scuri. Al centro del dipinto, cattura l’attenzione la doppia contrapposizione dei cavalli, uno bianco, l’altro nero, il primo visto da tergo, l’altro visto di fronte. Con questo modesto scorcio urbano, Fattori interpreta a suo modo le vedute urbane di ampio respiro che caratterizzavano buona parte della pittura europea dell’epoca. Uomo schivo e discreto, Borgiotti prediligeva gli ambienti familiari e i paesaggi campestri. Dei primi, ne è fulgido esempio Il solletico (1862), delicata tela di Adriano Cecioni, che ritrae una giovane donna nell’atto di tingere i capelli di una bambina, probabilmente la sorella minore; si percepisce la quiete del sobrio interno borghese, l’affetto che lega le due giovani, sottolineato dalla pennellata ampia e pastosa. Caratterizza la tela, un omaggio ai tricolori italiano e francese, in quegli anni di Risorgimento non ancora concluso, nei quali si guardava con fiducia alla Patria, e a Napoleone III. Malinconici e contemplativi, i paesaggi di Giuseppe Abbati, che abbracciano ampi orizzonti (Lido con buoi al pascolo, 1862), declinati in tenui colori che restituiscono l’immensità della natura maremmana. Parimenti delicati i paesaggi di Sernesi e Signorini, che pur nelle loro differenze stilistiche, colgono la luce poetica della campagna toscana. Di questo lirico sentimento naturale, sono spesso protagoniste le figure femminili, e ne L’uncinetto (1885), Signorini pone al centro della tela la delicata Irene “Nene” Roppele, in piedi su un sentiero boscoso, intenta a un lavoro all’uncinetto, appunto. Una tela dal sapore pascoliano, con la soave figura della giovinetta vestita di un casto abito nero, sospesa fra luce e l’ombra del bosco, impegnata in un lavoro la cui arte ha appressa dalla madre o dalla nonna. Chiude la collezione Borgiotti l’enigmatico Ricreazione (1876) di Antonio Mancini, misconosciuto esponente della pittura romana. Ispirandosi al Seicento napoletano e ai chiaroscuri di Caravaggio; ne risulta un’allegoria teatrale della Madonna con il Bambino, ravvisabile nella ragazzina dal volto cereo che tiene in braccio un’altrettanto cerea bambola dal sontuoso abito verde. L’abito bianco della ragazzina, i giochi sparsi per la sala, e gli arredi barocchi in secondo piano, conferiscono alla tela un’inquietante sospensione fra la vita e la morte.

Su corde ben più mondane, la collezione di Piceni, caratterizzata dalla presenza delle dame del bel mondo parigino, dai teatri, dai boulevards; una collezione di respiro europeo, ma di matrice italiana. Vi spiccano, come detto, De Nittis, Zandomeneghi e Boldini. In Al Bois de Boulogne (1873), il pittore barlettano omaggia l’aristocrazia che si diletta nelle passeggiate al parco; protagonista della tela, la raffinata dama in nero, affiancata da un bambino vestito alla marinara. Vicino allo stile impressionista, più che a quello macchiaiolo, il quadro è caratterizzato da una certa precisione formale sulle figure in primo piano, precisione che viene meno nel secondo e nello sfondo, le figure sfumando nella sottile nebbiolina autunnale. Di più ampio respiro, carico di suggestioni mutuate da Monet, Nei campi intorno a Londra (1875) ritrae un gruppo di giovani donne con un bambino, sedute in mezzo a un prato su cui spiccano innumerevoli papaveri, che costituiscono il principale punto di luce della tela, e contrastano con il grigio del cielo nuvoloso. Le figure femminili si stagliano delicatamente sul verde dell’erba. Atmosfera diametralmente opposta nel sussiegoso La domenica a Londra (1878), che ritrae un angolo della capitale britannica con Saint Paul sullo sfondo; il cielo è grigiastro, se ne percepisce l’odore umido, in una mattina festiva che lascia sguarnita la città. Spicca la severa figura del bobby in primo piano, intento nel suo compito di tutore dell’ordine. Il prevalere dei toni ocra scuro, immerge la città in un’atmosfera inquietante, come a suggerire che la tranquillità di questa strada, è del tutto dimenticata nei bassifondi non molto lontani, regno della miseria e della violenza, così come raccontata da tanta letteratura dell’epoca. Strettamente parigino, vicino precursore di Lautrec prima, e vicino all’impressionismo di Renoir poi, il veneziano Federico Zandomeneghi, altro pittore apprezzato da Piceni, nella cui collezione spiccano Le Moulin de la Galette (1878) e Au théâtre (1895). Il primo, immortala l’ingresso al noto locale cittadino, e risente della pittura giapponese, per la presenza del lampione in primo piano che divide la tela in due zone. Dominano i toni del rosso, che saranno poi cari anche a Lautrec, e una pennellata vigorosa ma “sgraziata” che sembra disegnare tanti ghigni sui volti umani. Un po’ come farà, di nuovo, Lautrec. Di una fase successiva, caratterizzato da una pennellata più morbida e pastosa, il raffinato Au théâtre, che ritrae quattro donne nel palco di un teatro ; accanto all’eleganza degli abiti, risalta l’incarnato e lo sguardo di ognuna di loro, intenta a godersi lo spettacolo, e una leggera estasi appare sui loro volti, resa dal pittore attraverso piccoli segni come le labbra o gli occhi socchiusi, o la morbidezza di una posa. Del palco, s’intravede soltanto il bordo superiore esterno, ma è sufficiente per apprezzarne la raffinatezza: gli stucchi in oro, il parapetto in velluto rosso, sono resi con leggiadra maestria. Altrettanto degno cantore di questa Parigi fastosa e miserabile insieme, ma che sprizza un ineffabile erotismo, il ferrarese Giovanni Boldini, che ne fu uno dei protagonisti della scena pittorica. Nella collezione Piceni, spiccano il Ritratto dell’attore Coquelin Ainé (1874), e La toilette (1885); se il primo immortala uno dei protagonisti della Comédie Française, con un’attenta descrizione della persona e del sontuoso interno, il secondo ha un taglio decisamente rivoluzionario per l’epoca, mettendo in mostra, sulla scia di Lautrec, la figura femminile colta nei suoi momenti più intimi, ma che del resto romanzi quali Nana di Zola avevano contribuito a diffondere, con questo denunciando la sostanziale ipocrisia di una società falsamente puritana. La modella è nientemeno che la Contessa Gabrielle de Rasty, che Boldini ritrae nella sua statuaria bellezza, esaltandone la fisicità e ua certa morbidezza di forme, immergendola in uno sfondo appena accennato di pennellate rotondeggianti, quasi espressioniste.
La mostra viareggina è l’occasione per scoprire lo spessore umano e intellettuale di due uomini, Borgiotti e Piceni, che intuirono l’importanza della pittura italiana del secondo Ottocento, cogliendone sia il lirismo sia la straordinaria capacità di raccontare, al pari di un romanzo verista, una società, italiana ma che europea, che stava attraversando importanti cambiamenti, sia sociali sia politici. Nella loto vasta produzione di letteratura critica, Borgiotti e Piceni ne hanno illustrate la genesi e le caratteristiche, contribuendo non poco a diffonderne la conoscenza in tutto il mondo. Sia per questo, sia per le collezioni cui hanno fatto dono alla collettività, meritano il rispetto e la riconoscenza dell’Italia tutta, soprattutto in un’epoca in cui, di uomini del genere, se n’è persa la stirpe.