Il paradigma dell’arte contemporanea: idea o azione?
Immagine, rappresentazione e concetto: da una parte gli idealisti esultano, dall’altra gli artisti protestano. Cos’è arte? L’idea o la sua esecuzione? Lo dichiariamo subito, per la tranquillità di nostalgici e progressisti: una risposta soddisfacente non la si recupera da nessuna parte; in fondo sarebbe ingenuo aspettarsi una soluzione semplice a un problema tanto complesso: esso chiama in causa filosofi, artisti, mercanti, ma anche giuristi e tribunali; e tuttavia di quest’ultimo settore lasciamo che si occupino gli esperti in scienze giuridiche così che noi, pensatori senza risvolti legali, possiamo conquistare il campo –ben più feroce– della sola teoria dell’arte. Su questo metaforico luogo di battaglia si schierano, come in tutti gli scontri, due fazioni opposte: da un lato c’è la squadra del senso comune, quella dei frequentatori non troppo pretenziosi di mostre e musei, degli amanti di Caravaggio e Michelangelo e, per i più arditi, di Picasso e De Chirico. Di contro, sulla sponda opposta, ci sono i teorici puri, gli intellettuali dell’ultima ora, gli estimatori di orinatoi, merde d’artista e cessi d’oro (per i miei lettori più pudichi: rimando rispettivamente alle opere di Duchamp, Manzoni e Cattelan).
Ma cos’è arte per i primi? «L’arte è perfetta imitazione della natura» direbbe Vasari, «è puro disegno» aggiungerebbe Dalí, è «pazienza e persistenza» chioserebbe Rodin; l’arte, concluderebbe l’illustre Zeri, è il prodotto eccellente di «una straordinaria capacità tecnica». Arte è dunque anzitutto un capo-lavoro e non un capo-pensiero, risponderebbero gli esponenti del primo gruppo che qui ci siamo permessi di citare liberamente. Certo, nessuno di loro avrebbe potuto dubitare che Botticelli, mentre dipingeva la sua Venere, fosse guidato da un’idea eminente eppure, senza la traduzione in atto pratico,quell’idea non avrebbe mai meritato di essere definita arte.
E per i secondi? Per i più estremisti, per i sostenitori del rigoroso movimento concettuale, arte è proprio (e solo) quell’idea: come spiegare altrimenti la statua invisibile “scolpita” da Garau? O come intendere le performance della Abramović, che hanno come unica espressione percepibile i gesti momentanei dell’artista? Come giustificare le quotazioni milionarie dei tagli di Fontana se non per un riconosciuto primato dell’idea sulla realizzazione? Ecco allora che l’opera d’arte, nell’epoca della sua «riproducibilità tecnica» (Benjamin), assume il carattere di un pensiero e abbandona quello di una realizzazione virtuosa; è l’arte che si riconosce tale in un concetto e non in una materia, ribadirebbe Croce.
«Il fatto che una scimmia abbia le mani» ebbe a dire il genio di Chesterton «è molto meno interessante per il filosofo del fatto che, pur avendo le mani, non le usi come l’uomo: non […] suona il violino né scolpisce il marmo». L’arte nasce perciò dallo spirito, non dalla mano: è l’interiorità il suo luogo privilegiato, e la tela, il marmo o l’argilla non sono che mezzi con cui essa si comunica. E però dobbiamo ammetterlo: qualcuno la esprime meglio di altri; allora forse in questo è consistita l’eccezionalità dei grandi artisti: essi sono stati capaci di veicolare grandi idee per mezzo di grandi talenti, creando così (nell’unione di mente e mano) opere destinate a sfidare i secoli.
Articolo a cura di Gaetano Chiarolanza