Kabul è stata normalizzata

Le biciclette gracchiano, le strade in terriccio esalano polvere, la gente attraversa le vie della città pronta vivere l’ennesima giornata come le altre. Un’apparente quiete sovrasta le vie di Kabul. Sembrano aver abbandonato le scene anche attori di primo piano come i mendicanti. La capitale dell’Afghanistan è misteriosamente ripulita. O meglio, normalizzata. Il dis-ordine pubblico è un ricordo, non poi così lontano essendo che l’arrivo dei talebani è avvenuto nel 2021, ma comunque ha assunto i contorni di un’astrazione, di un’allucinazione collettiva arrugginita.
Eppure, la normalizzazione spesso non va a braccetto con la normalità. Ecco che, allora, le vetrine dei negozi d’abbigliamento di Kabul catturano decisamente l’occhio. Beninteso, non per la qualità dei prodotti che espongono. Quanto perché tutti i manichini del reparto femminile hanno un velo in volto. L’imperativo è uno: coprire il volto delle donne. Talvolta, per risolvere il problema si decapita direttamente il manichino. Quello tra il governo talebano e i dummies è stato un rapporto complicato sin dagli esordi. Già nel 2021, con l’insediamento di Hibatullah Akhundzada, ne fu fatta strage.

Forse, però, è proprio la regina delle apparenze – una vetrina – a consentirci di squarciare il velo di Maya attorno alla nuova vita a Kabul. In tema di abbigliamento, infatti, nel maggio del 2022 l’Emirato ha promulgato l’editto che rende obbligatorio per ogni donna coprire ogni parte del corpo tranne gli occhi. Comprendere quanto sia pesante, dal punto di vista pratico e psicologico, la vita per una ragazza al tempo dell’Emirato è impossibile. Non bastano le statistiche sull’aumento dei problemi psicologici e psichiatrici. Non bastano i sondaggi e le inchieste delle organizzazioni internazionali e non governative. L’impatto di quest’esclusione avrà effetti per generazioni, sull’intera società.
Per gli ultraortodossi queste politiche di genere sono meri correttivi di costume. Servono a purificare la società, a dal veleno culturale importato dall’occupazione militare e il suo inevitabile corredo di valori e modelli sociali esportati. “Gli aspetti negativi degli ultimi 20 anni di occupazione legati all’hijab delle donne e alla cattiva guida finiranno presto”, ha dichiarato lo stesso Haibatullah Akhundzada. Per l’emiro, che alterna posizioni autarchiche a messaggi più distensivi e conciliatori, grazie all’applicazione della sharia, la legge islamica, “la società sta migliorando di giorno in giorno e i malfattori stanno per scomparire”.
Per anni i talebani hanno definito la vecchia repubblica come un fantoccio americano. Gli accordi di Doha – firmati nel 2020 – sono carta straccia. Forse perché a quel tempo supervisionati da un Trump troppo sbrigativo. Fatto sta che la disponibilità di dialogo con la casta politica afghana – a cui si alludeva nei patti – è ad oggi totalmente inesistente. Il governo è a esclusiva trazione talebana. D’altronde, Haibatullah Akhundzada e i suoi uomini non hanno alcune intenzione, né motivo, di condividere il loro governo con altri. Le voci più ultraconservatrici del governo, critiche della continuità col vecchio regime, hanno spesso e volentieri sabotato qualsiasi tentativo di riavvicinamento all’occidente.
Così, la bandiera repubblicana è stata sostituita da quella del monolitico monoteismo islamista. Ogni edificio pubblico di Kabul accoglie il drappo bianco ornato di shadada, la scritta che equivale alla professione di fede islamica. Eppure, bandiera diversa, stesse istituzioni, identica macchina burocratica. La differenza era che prima quella macchina era alimentata dall’occidente. Il gioco vale la candela? Forse sì per chi aveva bisogno di foraggiare l’idea che la democrazia, seppur esportata con le armi, funzionasse sempre. Tuttavia, questo non ha fatto che deteriorare, giorno dopo giorno, il legame tra politica e cittadinanza. In compenso, però, molti afghani e stranieri si sono riempiti le tasche.

Dal suo canto, la diplomazia euro-atlantica ha preso le sue contromisure, adottando strategie di rappresaglia economica. Ad esempio, sono stati congelati tutti i fondi della Banca Centrale Afghana, tramite un ordine esecutivo unilaterale dell’ex presidente USA, Joe Biden. Ecco perché, in questi tre anni, i talebani da un lato hanno dovuto trovare nuovi rubinetti che offrissero liquidità; dall’altro, hanno dovuto spremere all’osso quelli già esistenti. Quindi: tasse, controllo dei posti di confine, dogane, concessioni minerarie, lobbying sugli imprenditori locali e regionali, commercio illecito ecc.
Di certo, se è vero che l’Emirato attualmente riesce a reggere in piedi uno Stato con funzionalità minime e capacità ridotte è altrettanto vero che la pressione della debolezza finanziaria presto potrebbe farsi sentire, alienando così ancora di più la popolazione dal governo centrale. Se il governo è incapace di pagare in modo continuativo persino i salari degli impiegati pubblici, quanto ancora potrà bastare la retorica delle responsabilità disattese dell’occidente?