La cultura della sorveglianza

Che cos’è la Cultura? Nessuno ne ha mai elaborato una definizione risolutiva, eppure si tratta di uno dei termini più abusati dalle nostre istituzioni e dai suoi rappresentanti. Da scrittori a psicologi, dagli assessori comunali ai direttori delle fiere editoriali: tutti parlano di cultura. Promuovere la cultura è lo slogan del momento, un po’ come qualche anno fa si faceva con lo sport. A Roma, poi, le attività culturali si moltiplicano, insieme a fantomatiche associazioni che sotto questa sigla giuridica svolgono le più disparate attività. Tra rassegne cinematografiche e opening, la città sembra in fermento: aprono centri culturali, case d’artista e gallerie improvvisate. Le librerie diventano i luoghi perfetti dove i brand di borse possono inaugurare, un mese l’anno, dei pop-up. Persino le birrerie fanno aperitivi letterari, mentre le edicole riqualificate organizzano gruppi di lettura il sabato pomeriggio. Ma la vera novità sono le periferie. Le periferie a Roma sono luoghi letteralmente invasi dalla cultura: malgrado manchino di mezzi pubblici e acqua corrente, adesso ci sono i murales dell’ultimo street artist a riqualificare la zona, ora il concerto non si fa più al Circo Massimo ma a Tor Marancia, il filosofo non parla più all’Auditorium ma nella piazza del Quadraro. Contro l’inflazione e l’esclusione sociale ora c’è la Cultura. Arrivano gli assessori e i deputati a portare il Verbo. Lo Stato, che fino a ieri entrava nelle periferie con le camionette, oggi entra con la cultura: se prima si accontentava dei corpi, adesso vuole anche le anime. È qui che sorge un dubbio. Perché le istituzioni si spendono così tanto per incentivare la cultura? Se questo insieme di pratiche fosse un nuovo dispositivo di controllo sociale? Se la cultura fosse un’arma di distrazione e al tempo stesso di sorveglianza che lo Stato utilizza per contenere il dissenso? La verità è che lo Stato non promuove la cultura in generale, ma solo – o comunque principalmente – quelle attività che elaborano dei programmi in cui le parole chiave e gli obiettivi coincidono anche con le priorità dello Stato. Insomma, si promuove solo quella cultura che segue i trend del momento, l’agenda setting istituzionale. Per questo vediamo nascere tantissime realtà «culturali» tutte più o meno uguali, con qualche variazione grafica, che fanno le stesse identiche cose, che trattano gli stessi temi, che invitano a parlare sempre gli stessi ospiti, perché per accedere al bando o al finanziamento pubblico è necessario attingere da un campo semantico preciso, da un gruppo ben circoscritto di intellettuali. Lo Stato amministra e gestisce i termini e i confini in cui si muove la cultura. In questo senso non c’è niente di più sbagliato che equiparare la Cultura con la libertà. La diffusione della cultura non coincide con l’aumento delle persone libere, con l’aumento della libertà di espressione e di pensiero. Lo sapeva bene uno dei maggiori storici del XIX secolo, Jacob Burckhardt, che vedeva nello Stato, nella Religione e nella Cultura le tre grandi potenze motrici della storia, tre forze contrapposte, che devono in qualche modo arginarsi e porre dei freni le une alle altre, per non scivolare nell’anarchia o nel totalitarismo. Lo Stato è apparato e complesso di apparati, macchina statica che rappresenta la coercizione per eccellenza, regno della violenza trasformata in forza legittima. Al suo opposto sta la Cultura: “Chiamiamo cultura la somma complessiva di quei processi intellettuali che sono spontanei e non rivendicano a sé nessuna validità universale o coercitiva”. La cultura appartiene quindi alla dimensione della mobilità, a un agire spontaneo. Ecco noi vediamo esattamente l’opposto: una cultura programmata, organizzata dai nuovi ingegneri morali, che indicano il bene e condannano il male, che ci danno il libretto di istruzioni delle parole da utilizzare e di quelle bandite, che distribuiscono pass di entrata e di uscita dai fondi pubblici. Stiamo facendo piani quinquennali di libertà forzata. Fra un po’ per essere liberi dovremmo chiedere il contributo della Regione.