La sola ragione di vivere. L’esperienza fiumana di Gabriele D’Annunzio
Io, che a uno dei protagonisti della conquista di Fiume, Guido Keller, ho dedicato addirittura un brano rap, dal titolo fin troppo scontato di Asso di cuori, non potevo che guardare con curiosità a un libro che ha l’intenzione esplicita di rileggere criticamente quest’importante pagina di storia del Novecento italiano.
La sola ragione di vivere, curatela di Emanuele Merlino edita dalla controcorrente casa editrice Passaggio al bosco (il sottoscritto che si è laureato con una tesi su Ernst Junger non può che apprezzare la citazione) ha, tra i tanti, il pregio di riportare i testi originali, attingendo a piene mani dalle fonti, abitudine purtroppo sempre meno diffusa nella critica contemporanea.
Premettiamo l’ovvio per spazzare il campo da ogni possibilità di equivoco. D’Annunzio in vita ha dimostrato d’essere un pessimo politico. La Storia ha stabilito risolutamente quanto fossero oltremodo ingiusti i suoi strali contro Giolitti, giudicato troppo sbrigativamente come l’uomo del parecchio. Le sorti del primo conflitto mondiale hanno comprovato che i parecchio di Giolitti corrispondevano verosimilmente a Trento e Trieste senza colpo ferire, senza il martirio di 600.000 caduti che spesso ignoravano persino i motivi della guerra e chi fossero i nemici! In questo senso consiglio la lettura di Terra matta di Vincenzo Rabito, Ragazzo del ’99 ragusano, semianalfabeta, che tra le mille peripezie di un’esistenza in perenne fuga dall’indigenza, finisce anche per combattere con il ruolo di “zappatore”, ossia colui che scavava le trincee, sul Carso dove redige un diario recentemente riscoperto di straordinaria crudezza e valore storico.
D’altra parte D’Annunzio è stato un grande poeta. Secondo il modesto parere di chi scrive insuperato da chiunque l’abbia succeduto in Italia e considerando che solo Pasolini dopo di lui è degno di questo titolo. In D’Annunzio la vita stessa si fa opera d’arte. E proprio Fiume sta lì ad attestarlo. C’è un’identità totale tra lo scritto e il vissuto. È quello che oggi in ambiti meno convenzionali verrebbe definito come credibilità.
«L’immortalità si paga cara: bisogna morire diverse volte mentre si è ancora in vita» scriveva Nietzsche. L’immortalità passa per il desiderare ardentemente tutto ciò che viviamo, fino all’ultimo attimo. Questo è il significato più recondito e puro di ciò che lo stesso Nietzsche afferma nel noto frammento 341 della Gaia Scienza a proposito dell’eterno ritorno dell’identico.
E se c’è un uomo che più di ogni altro ha cercato di personificare la filosofia di Nietzsche, quello è certamente D’Annunzio. Dove Mussolini e Hitler hanno strumentalizzato e stravolto il messaggio di Nietzsche, svilendo l’elevatezza del suo pensiero con grottesche ed esiziali, a seconda dei casi, deduzioni politiche, D’Annunzio è l’unico che ha avuto il coraggio di vivere quel pensiero, si potrebbe dire di fare del Verbo carne mutuando impropriamente il linguaggio evangelico.
A 100 anni dagli eventi è bene inoltre riconoscere una volta per tutte che l’esperienza fiumana non ha nulla a che spartire con il fascismo. La pletora che si riversò a Fiume è d’altronde composita, uno scenario a tratti sconcertante. Artisti, reduci, arditi, sbandati, rivoluzionari, futuristi, anarchici e certamente anche fascisti della prima ora. Forse i Legionari che partirono da Ronchi erano un manipolo di malinconici, non uso volutamente il termine di nostalgici, che un po’ come in una partita tra vecchie glorie cercavano di rivivere i fasti passati non arrendendosi al tempo che passa. L’effetto può risultare comico o anacronistico, ma io ci vedo del buono nello sforzo di tenere in vita un sogno che resiste ai cliché della vita borghese, specie oggi che la quotidianità ci costringe tristemente e continuamente ai dati di realtà. Ed è bene ribadire che, sebbene non sia vero che D’Annunzio avesse i tratti tipici dell’antifascista, come forse la recente cinematografia ha tentato di dipingerlo nel tentativo di recuperarlo, nemmeno si sarebbe mai sentito a proprio agio vestendo i panni stretti del fascista. A suffragio di quest’idea, è piuttosto noto che Mussolini si affrettò a prendere le distanze da ciò che stava accadendo a Fiume, così come l’aneddotica si spreca nel ricordarci che tra il Vate e il Duce, tra il “fante alato” e il “lesto fante” (a proposito di aneddotica, qualcuno coglierà…) scorresse tutt’altro che buon sangue.
Personalmente non credo che Fiume abbia raccolto l’eredità risorgimentale come viene ventilato in uno dei saggi iniziali. Sicuramente Fiume ha rappresentato il sogno, più probabilmente l’Utopia di costruire un mondo nuovo. Non troverei scandaloso paragonare Fiume a esperimenti sociali come Woodstock o Christiania, almeno per ciò che concerne la cesura netta con la morale dei baciapile tipica dell’Italia del tempo (e non solo).
La Costituzione fiumana, più che un elenco di norme è un’opera poetica, scritta in un italiano sublime. Per ovvie ragioni, non posso che compiacermi del riconoscimento istituzionale della musica, che gode di accesso gratuito in quanto foriera di elevazione spirituale per la comunità. Quanto moderna risulta questa concezione in un’epoca storica che umilia alcune attività attraverso le categorie di essenziali e superflue. Forse ingenua, ma comunque degna di menzione è anche la parte che regolava i rapporti sindacali, il tentativo di superare la contrapposizione classica tra Capitale e Lavoro attraverso il modello corporativistico. Colpisce molto la nobiltà che D’Annunzio conferisce al lavoro. Si legge che «il lavoro, anche il più umile, anche il più oscuro, se sia bene eseguito, tende alla bellezza e orna il mondo».
A Fiume anche l’uguaglianza di uomini e donne era proclamata per Costituzione, l’amore omosessuale non rappresentava un tabù, il divorzio era consentito con mezzo secolo d’anticipo, vigeva un sistema di liberalizzazione delle droghe, la vita militare era aperta alle donne, palesando anche in questo caso coraggio e lungimiranza. Tutti i culti religiosi erano consentiti. Era previsto un salario minimo e un assegno a coprire i periodi di disoccupazione. Nel centenario della Marcia su Roma, La sola ragione di vivere è un testo prezioso sia per chi è profano dell’argomento Fiume, sia per chi è interessato ad approfondirlo sui testi diretti, nell’ottica di comprendere le controverse relazioni tra Fiume e il fascismo. Arrogandomi per l’ultima volta di un giudizio indebito, ritengo che la retorica dannunziana sia stata abilmente assimilata da Mussolini e asservita ai propri fini, ma aldilà di innegabili corrispondenze con il sansepolcrismo, Fiume e fascismo siano due entità distinte. E la lettura di questo libro rinfranca la mia tesi.