Per favore, chiamatemi Saleh
Ci sono storie che s’intrecciano, destini che s’incontrano e a volte anche diritti che s’infrangono in un mondo attonito che guarda e si scandalizza, ma non agisce. Rimane di sasso e non si muove.
Incidenti sul lavoro
L’INAIL, Istituto Nazionale per l’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro, stila i dati degli incidenti. Quello che comprendeva il periodo tra gennaio e giugno mostrava 382.288 infortuni, di cui 463 mortali. Si è esultato per il trend negativo (-13,9%) in questo strano mondo in cui le morti bianche – definite con quell’aggettivo pulito e candido – risultano essere quelle più cruente e ingiuste (se mai possano esistere morti giuste). Le patologie di origine professionale invece sono aumentate del 7,7% (31.085), e di questo non si può affatto esultare.
Non c’è da sperare che non ci si ammali o non si muoia più, perché spesso sono proprio le aziende le prime a non rispettare le norme; si lavora con la stessa sicurezza con cui si fa un sorpasso contromano alle tre di notte mentre si è ubriachi. E ciò che è peggio, è che spesso si è aizzati dagli stessi supervisori, da coloro che dovrebbero garantire la sicurezza, ma che invece la trascurano a vantaggio della produttività. Ad esempio, se un operaio – soprattutto precario – si rifiuta di agire alle imposizioni aziendali, probabilmente sarà licenziato, così come sarà licenziato se rispetta tutte quelle regole che inevitabilmente rallentano la produzione.
Inchieste e reportage sull’argomento non sono riuscite a fermare questo malcostume, a dare forza agli operai, ad essere uno sprone per quei lavoratori che non hanno il coraggio né la possibilità di ribellarsi ai loro datori di lavoro o supervisor, soprattutto in questo momento di profonda crisi lavorativa. Morire sul lavoro, per molti, è un rischio accettabile, visto che la società odierna, che ha trascinato moltissime persone sulla soglia della povertà, non ammette ripensamenti. Si morirebbe comunque di stenti e senza un lavoro, magari condannando anche i propri figli. Così quasi tutti scelgono la via dell’omertà, anche a costo della vita.
Molti, troppi sono coloro che sono morti per lavorare; non “morti bianche”, ma morti col sudore della loro fatica sulla fronte, per guadagnare quel poco per vivere, sempre più spesso sopravvivere.
Carico residuale
Mentre il nostro mondo è capace di ledere diritti acquisiti, di ignorare le norme di sicurezza, dall’altra parte del mare – in un mondo che solitamente viene chiamato “terzo”, nonostante sia solo uno – donne, uomini e bambini, s’imbarcano sperando di trovare in Europa una vita migliore. Invece, contro ogni loro aspettativa e speranza, diventano soltanto dei carichi residuali.
Così il Ministro dell’Interno Matteo Piantedosi ha parlato dei migranti delle due navi, Humanity 1 e Geo Barents, ormeggiate a Catania. Ovviamente, chi conosce il peso delle parole, si è indignato, accusandolo di disumanità e insensibilità umana, ancor prima che politica.
Chiamare qualcuno “carico residuale” è forse peggio di definire un essere umano “scarto”, perché lo pone immediatamente come un carico, ossia un peso non umano. Le parole possono ferire più di una spada, “E’l modo ancor m’offende” direbbe Dante.
Morte bianca di un carico residuale
L’Italia è anche il Paese dei paradossi: quello dove non c’è occupazione, ma molti lavorano in nero; quello della sicurezza, che non viene rispettata; quello dei diritti, che non vengono applicati.
Il 28 settembre 2022 è morto un uomo. Arrivato al Niguarda di Milano già in coma, è rimasto in ospedale due settimane prima di spegnersi. Il suo nome era Mohamed Adbelwhap Said Abbogoda, 31 anni. Il trauma cranico, verificatosi la mattina del 15 settembre, era troppo grave per poter anche solo sperare di sopravvivere. Il suo respiro si era già fermato al cantiere, ma i medici lo avevano rianimato e il suo cuore aveva ripreso a battere, – quanta voglia di vivere aveva quel cuore! – ma purtroppo non è bastato.
Era rimasto schiacciato da un pantografo elevatore e solo i vigili del fuoco erano riusciti a liberargli la testa incastrata nel macchinario. Mohamed Adbelwhap lavorava per una ditta in subappalto, perché in Italia funziona così: l’azienda che vince gli appalti subappalta così tante volte che si perdono le tracce di chi ha davvero in mano la situazione, e quando finisce il lavoro o succedono dei guai, le ditte più piccole spariscono nel nulla, come se non fossero mai esistite. Mentre le grandi aziende alzano le mani, dichiarando di essere all’oscuro di tutto.
Riguardo queste piccole ditte appaltatrici (sottolineando come non tutte le piccole-medie imprese sono così, per fortuna), per recuperare personale a basso costo, chiedono tramite Whatsapp i documenti; il tutto senza controllare se siano veri o falsi, senza nemmeno chiedere un semplice riscontro fotografico. Non conoscendo affatto il lavoratore, semplicemente lo chiamano, chiunque esso sia. Questo perché l’unica cosa che importa è sottopagarlo, tanto sanno che possono sparire in un batter d’occhio, se qualcosa dovesse andare storto.
Così è entrato in quel cantiere Mohamed e così ha perso la vita, perdendo anche il suo nome. Già, perché Mohamed Adbelwhap Said Abbogoda, 31 anni, non era Mohamed, quello non era il suo vero nome, non era la sua età; era solo un nominativo che gli aveva permesso di lavorare, uno dei tanti documenti che immigrati clandestini senza permesso di soggiorno forniscono alle ditte per poter lavorare sottopagati. L’alternativa sarebbe la delinquenza, i furti, le rapine o peggio ancora… Ma quelli come Mohamed non scelgono quella via, preferiscono morire senza far del male a nessuno.
Per questi immigrati irregolari meglio guadagnare poco, vivere di stenti e rischiare di morire, piuttosto che deturpare la propria morale, i propri principi di comportamento etico. Non parliamo di “immigrato”, ma di “immigrati”, al plurale, poiché quel nominativo non è personale, ma viene usato contemporaneamente da più persone, in modo che molti, alla fine, possano lavorare. Vengono chiamati “lavoratori Alias”, deumanizzandoli del tutto, tutti con lo stesso nome, la stessa identità.
Andrea Sparaciari, nel suo meraviglioso articolo su FQMillennium del Fatto Quotidiano, ha raccontato la storia di questo ragazzo, un fantasma, un irregolare, un clandestino. Ha scoperto chi è, anzi, chi era: un tunisino arrivato su un barcone nel 2009, un “carico residuale”, direbbe il Ministro, che si era trasferito a Milano lavorando come manovale per poter sopravvivere, fidanzato da due mesi, e che aspettava inutilmente il suo permesso di soggiorno.
Forse la dignità del suo nome avrebbe potuto salvarlo, perché avere un nome vuol dire avere dei diritti oltre ai doveri. Eppure lui non poteva gridarlo, doveva starsene silente e vivere in sordina, sperando che qualcosa prima o poi sarebbe cambiato. Ora però non può più cambiare, e tocca dunque a noi far rimbombare il suo nome, per dargli quella dignità e quella forza che in vita nessuno gli ha dato. Il suo nome era Saleh Mohamed Ahmed Abdelaziz. Ripetiamolo: Saleh Mohamed Ahmed Abdelaziz.