Nella mattanza di Bolzaneto fu massacrato anche lo Stato italiano

La mattanza di Bolzaneto è passata alla storia e continuerà a segnare la storia della Repubblica italiana. Le urla, il rumore dei pugni e dei calci, l’odore del sangue, il suono sordo delle ossa che si rompono, la confusione delle torture, dei pestaggi e degli insulti, il disordine della paura, lo scoramento dell’incredibile invece rimarranno memoria infame e infima di chi c’era. Di chi era nella scuola Diaz e poi nella caserma Nino Bixio di Bolzaneto, in quei pochi ma interminabili giorni del 21 e 22 luglio 2001.
La forza subdola dei maltrattamenti sta nell’esserci perpetuamente, nel rimanere sotto forma di segno indelebile sul corpo, come cicatrice che sopravvive alle rughe del tempo; la tortura non finisce, i torturati non smettono di esserlo, perché quel vissuto non si cancella. I maltrattamenti mantengono la loro smorfia sul volto del paese che li produce, inclinano il suo progresso.
Dalle condanne definitive dei colpevoli della mattanza, stabilite nel 2015, si è parlato spesso del danno d’immagine per lo Stato italiano. La stessa procura contabile aveva sottolineato in udienza che quei giorni di Genova «hanno determinato un danno d’immagine che forse non ha pari nella storia della Repubblica».
L’immagine però, permettetemelo, ha un ruolo marginale: ad essere stata danneggiata è la realtà, perché pisciare sullo stato di diritto non significa apparire scortesi agli occhi del mondo, ma sovvertire le micrologiche del rispetto reciproco grazie alle quali possiamo vivere in uno stato di diritto e non nello stato di natura. Grazie alle quali possiamo vivere da persone e non da belve. Per questo motivo la mattanza di Bolzaneto e della Diaz ci riguarda da vicino, uno ad uno.
Dopo 17 anni, l’Italia sembra ancora non accorgersi di essere stata massacrata insieme a quasi 300 persone, all’interno di quelle stanze buie, nelle quali la Repubblica è stata mortificata nel suo scopo e nel suo intento. In un luogo in cui vige il diritto al massacro, il diritto all’oppressione, alla violenza codarda, non esiste il diritto a pensare, parlare, vivere e sopravvivere.
Nella sentenza dello scorso ottobre, la Corte europea dei diritti dell’uomo (Cedu) affermava l’inadeguatezza del lavoro della magistratura italiana, in quanto “nessuno ha passato un solo giorno in carcere per quanto inflitto ai ricorrenti” e nella medesima sentenza, riconoscendo a 61 persone il diritto ad essere risarcite dallo Stato italiano, ribadiva che si è trattato di tortura, ma che la legge italiana sul reato di tortura risulta totalmente inefficace ed inapplicabile ai fatti presi in esame.
Un risarcimento di 6 milioni
Venerdì 6 aprile è arrivata un’altra condanna, come conseguenza di quella di Strasburgo. È la prima sentenza per danno erariale relativa ad uno dei due grandi orrori del G8 di Genova. La Corte dei conti di Genova ha infatti stabilito che saranno 28 esponenti delle forze dell’ordine e del personale medico-sanitario a risarcire lo Stato per danni materiali causati all’Italia. Per esattezza 6 milioni di euro, ovvero la somma derivante dalle provvisionali stabilite dai giudici come risarcimenti alle centinaia di manifestanti rinchiusi nella prigione di Bolzaneto, vittime di violenze, umiliazioni e privazione della libertà personale, nonché delle spese legali derivanti dai tre gradi di giudizio. Il risarcimento, al quale farà sicuramente seguito il ricorso in appello, è destinato al Ministero di Grazia e Giustizia che ha sostenuto le spese per gli indennizzi alle vittime.
La Corte dei conti ha però emesso una sentenza che prende in considerazione soltanto i danni materiali, accogliendo solo parzialmente la richiesta della procura, formulata durante l’udienza di un anno fa, che chiedeva un risarcimento di 7 milioni di euro per i danni patrimoniali recati alle 255 persone trattenute nelle celle di Bolzaneto, e altri 5 milioni per il danno di immagine all’Italia.
La condanna non considera né il danno di immagine, né il danno al valore della democrazia e della libertà morale dello Stato italiano e tanto meno l’offesa al diritto alla cittadinanza.
Chi paga?
Il risarcimento dei 6 milioni graverà soprattutto sui vertici delle istituzioni coinvolte, ossia coloro che, secondo i giudici, «erano necessariamente consapevoli delle violenze commesse» su persone inermi, minacciate di morte e di stupro. I condannati sono poliziotti, carabinieri, agenti e dirigenti della polizia penitenziaria, i medici e i sanitari, fra questi spiccano alcuni nomi.
Il dottor Giacomo Toccafondi, coordinatore delle attività sanitarie della sede penitenziaria di Bolzaneto; il generale Oronzo Doria, ex capo area della polizia penitenziaria della Liguria, chiamato al pagamento sussidiario di 800mila euro; l’ex assessore alla Legalità del Comune di Roma, Alfonso Sabella, all’epoca dei fatti capo dell’Ispettorato del Dap (Dipartimento Polizia Penitenziaria), che, sempre in via sussidiaria, dovrà pagare un conto di circa un milione di euro.
Dal punto di vista penale il processo per i fatti di Bolzaneto si era concluso con 33 prescrizioni, 8 condanne e 4 assoluzioni, ma le amministrazioni di appartenenza degli imputati avevano dovuto ugualmente risarcire le parti civili.
Pentimenti tardivi e promozioni
Ma effettivamente perché la Corte dei conti dovrebbe condannare ad un risarcimento per danni morali e istituzionali, quando la morale stessa è stata interdetta da un bel pezzo? Le promozioni di chi era coinvolto direttamente o indirettamente nei fatti della Diaz e di Bolzaneto si sono sprecate. Enrica Bartesaghi, presidente dell’ormai sciolto Comitato Verità e Giustizia per Genova, istituito a sostegno «delle vittime della repressione delle forze dell’ordine nell’esercizio della manifestazione del pensiero», e madre di Sara, una delle vittime della Diaz, si fa testimone di uno scenario raccapricciante: «in questi lunghissimi anni ho assistito a numerose promozioni indecenti di buona parte dei condannati per le violenze e le torture alla Diaz e a Bolzaneto, da parte di tutti i governi che si sono succeduti. Non c’è mai stata alcuna sospensione, nessun allontanamento dei colpevoli, nessuna legge o riforma volta a prevenire e condannare quello che è successo a Genova». Addirittura a luglio 2017 per chi non era potuto andare in pensione si prospettava la concreta possibilità di rientrare in servizio. Tra i reintegrabili, l’ex capo del Servizio Centrale Operativo, Gilberto Caldarozzi, l’ex dirigente della Digos genovese, Spartaco Mortola, e il funzionario di polizia Pietro Troiani. È bene ricordare che le condanne riguardavano esclusivamente il reato di falso, relativo alla firma sotto al verbale in cui si dichiarava che all’interno della scuola erano presenti alcune molotov, che in realtà erano state introdotte da alcuni agenti di polizia. Se per Strasburgo era reato di tortura, per l’Italia era reato di falso. Peccato che in quella mattanza morì anche un ragazzo.
Il caso di Gilberto Caldarozzi, condannato in via definitiva a 3 anni e otto mesi per aver attestato il falso e coperto omertosamente le violenze e le torture inferte dalle forze dell’ordine all’interno della scuola Diaz, è emblematico perché, allo scadere dell’interdizione dai pubblici uffici per cinque anni, è stato nominato dal ministro dell’Interno, Marco Minniti, vicedirettore tecnico della Direzione Investigativa Antimafia.
Nel 2007, il vicequestore aggiunto del primo Reparto Mobile di Roma, Michelangelo Fournier, anche lui impuntato nella vicenda, raccontava una versione dei fatti molto lontana da quella spacciata nel 2001 per vera. «Arrivato al primo piano dell’istituto, ho trovato in atto delle colluttazioni. Quattro poliziotti, due con cintura bianca e gli altri in borghese, stavano infierendo su manifestanti inermi a terra. Sembrava una macelleria messicana. Sono rimasto terrorizzato e basito quando ho visto a terra una ragazza con la testa rotta in una pozza di sangue. Pensavo addirittura che stesse morendo. Fu a quel punto che gridai: “basta basta” e cacciai via i poliziotti che picchiavano». E per sua stessa ammissione confessa: «durante le indagini non ebbi il coraggio di rivelare un comportamento così grave da parte dei poliziotti per spirito di appartenenza».
Anche Vincenzo Canterini, all’epoca dei fatti comandante del Primo reparto mobile romano, nel quale era inquadrato il VII Nucleo Sperimentale antisommossa guidato da Michelangelo Fournier che irruppe nella scuola Diaz, nel libro Diaz, scritto con Simone Di Meo e Marco Chiocci racconta la sua verità sulla sanguinosa notte di Genova. «La Diaz fu una rappresaglia scientifica alla figuraccia mondiale per le prese in giro dei black bloc. Un tentativo, maldestro, di rifarsi un’immagine e una verginità giocando sporco, picchiando a freddo, sbattendo a Bolzaneto ospiti indesiderati assolutamente innocenti».
E della ragazza di cui ha parlato anche Fournier scrivono: «tutt’attorno sentivo risuonare lamenti e gemiti spettrali, ma davvero non riuscivo a non distogliere la vista da quella ragazza che lottava con la morte […] Pensavo esclusivamente alla giovane e quando scoprimmo che quei pezzettini di carne sparpagliati sul pavimento non provenivano dalla sua testa ma dalla cena che quella disgraziata doveva aver vomitato per le percosse, tirammo un sospiro di sollievo». E ancora Canterini racconta che «venni a sapere poi che nella concitazione al primo piano Fournier aveva preso di petto un grasso collega impegnato a simulare un coito su una ragazza carponi, e aveva inveito contro altri quattro agenti».
L’ipocrisia dell’immagine
Si può parlare con ragione di tortura, anche se la legge sul reato di tortura in Italia rappresenta un gigantesco buco nell’acqua, eppure non se ne può parlare. O forse non tutti, non sempre. Poche settimane fa il sostituto procuratore della Corte d’Appello di Genova, Enrico Zucca, durante un’iniziativa dell’ordine degli avvocati su Giulio Regeni aveva detto: «i nostri torturatori sono ai vertici della polizia, come possiamo chiedere all’Egitto di consegnarci i loro torturatori?».
Ebbene, il capo della polizia Franco Gabrielli, non ci sta, rivendica un territorio di competenza che non può essere solcato da altri, se non dai sui funzionari. Si è difeso nella maniera più banale e retorica possibile, dichiarando che «noi facciamo i conti con la nostra storia ogni giorno, noi sappiamo riconoscere i nostri errori. Noi, al contrario di altri, sappiamo pesare i comportamenti. Ma al contrario di altri, ogni giorno i nostri uomini e le nostre donne, su tutto il territorio nazionale, garantiscono la serenità, la sicurezza e la tranquillità».
Eppure lo stesso Gabrielli, meno di un anno fa, affermava che durante il G8 del 2001 nella caserma di Bolzaneto venne praticata la tortura e che se fosse stato al posto di Giovanni De Gennaro, all’epoca dei fatti capo della polizia e coinvolto nei procedimenti del massacro alla Diaz dai quali venne assolto in Cassazione per il reato di induzione a falsa testimonianza, si sarebbe dimesso. Al contrario Giovanni De Gennaro di carriera ne ha fatta, è attualmente presidente di Leonardo Finmeccanica e negli anni 2012-2013 è stato sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio dei ministri.
Nonostante ciò Gabrielli aveva sintetizzato bene il significato spettrale di quella mattanza: «a Genova, un’infinità di persone, incolpevoli, subirono violenze fisiche e psicologiche che hanno segnato le loro vite. E se tutto questo, ancora oggi, è motivo di dolore, rancore, diffidenza, beh, allora vuol dire che, in questi sedici anni, la riflessione non è stata sufficiente. Né è stato sufficiente chiedere scusa a posteriori».