Corte di Strasburgo: a Bolzaneto fu tortura, ma la legge italiana non serve

La Corte di Strasburgo ha stabilito che “i ricorrenti, trattati come oggetti per mano del potere pubblico, hanno vissuto durante tutta la durata della loro detenzione in un luogo ‘di non diritto’ dove le garanzie più elementari erano state sospese”.
La Corte europea dei diritti dell’uomo (Cedu) è tornata ad esprimersi ancora una volta sugli avvenimenti verificatesi nella caserma Nino Bixio di Bolzaneto, in occasione del G8 di Genova nel 2001, confermando le condanne per reato di tortura. I giudici precisano che “l’insieme dei fatti emersi dimostra che i membri della polizia presenti, gli agenti semplici, e per estensione, la catena di comando, hanno gravemente contravvenuto al loro dovere deontologico primario di proteggere le persone poste sotto la loro sorveglianza”. La sentenza si sofferma anche sull’inadeguatezza del lavoro svolto dalla magistratura italiana, in quanto “nessuno ha passato un solo giorno in carcere per quanto inflitto ai ricorrenti”. Le cause principali dell’impunità sono essenzialmente due: in primo luogo, l’impossibilità di identificare gli agenti coinvolti, sia perché a Bolzaneto non portavano segni distintivi sulle uniformi, sia per la mancanza di cooperazione della polizia con la magistratura; secondariamente, l’inefficacia degli organi giuridici italiani nella condotta del processo. A dimostrare l’inapplicabilità, declamata fin da subito da Amnesty International Italia e da Antigone Onlus, nella sentenza la Corte dichiara di “aver preso nota della nuova legge sulla tortura entrata in vigore il 18 luglio di quest’anno, ma che le nuove disposizioni non possono essere applicate a questo caso”.
I ricorrenti alla Corte EDU sono stati 59: tutti condotti nella caserma di Bolzaneto tra venerdì 20 e domenica 22 luglio 2001. Alcuni di loro provenivano dalla scuola Diaz, in merito alla quale la Corte si era già espressa riconoscendo le violenze perpetratevi come torture.
Nella stessa sentenza inoltre, la Corte condanna l’Italia anche per “i fatti di Asti”, ovvero per le torture inflitte da alcuni agenti di polizia penitenziaria, nel 2004, nei confronti di due detenuti, Andrea Cirino e Claudio Renne.
Le vicissitudini giudiziarie
Negli anni sono stati ascoltati, in aula, 326 testimoni. Hanno raccontato gli abusi subiti in prima persona o quelli a cui hanno dovuto assistere. Il processo in Cassazione per le violenze di Bolzaneto si era concluso, nel giugno 2013, con un nulla di fatto: in Italia non esisteva il reato di tortura e questo vuoto legislativo permise agli imputati di essere accusati soltanto di reati minori. Dall’abuso di ufficio all’abuso di autorità contro arrestati e detenuti, fino alla violenza privata. Ma non di tortura. Le pene furono quantificate dai sei mesi ai tre anni, ma caddero nell’indulto, dunque nessuna detenzione per i responsabili; altri reati invece caddero in prescrizione nel 2009: tutto risolto in sette condanne e quattro assoluzioni. Fra le prescrizioni anche i medici che torturano i pazienti detenuti. Gli assolti: Oronzo Doria, all’epoca colonnello del corpo degli agenti di custodia, e gli agenti Franco, Talu e Trascio. Mentre le conferme di condanna per Massimo Luigi Pigozzi (3 anni e 2 mesi), che divaricò le dita della mano di un detenuto fino a strappargli la carne. Lo stesso Pigozzi che nel 2013 fu condannato a 12 anni e sei mesi per violenze carnali, consumate nel 2005, su quattro prostitute romene in stato di fermo. I giudici avevano disposto che a pagare i danni fosse anche il ministero dell’Interno, che aveva il dovere, dopo i fatti di Bolzaneto, di non “metterlo di nuovo a contatto con i fermati”. Tra le altre conferme di condanna, gli agenti di polizia penitenziaria Marcello Mulas e Michele Colucci Sabia (condannati a 1 anno) e il medico Sonia Sciandra; pene a un anno confermate anche per gli ispettori della polizia, Matilde Arecco, Mario Turco e Paolo Ubaldi.
“Eravamo in balia di un potere arbitrario”
A rimetterci furono uomini e donne di diverse età, vecchi e giovani, ma anche un minorenne. Provenienti da nazioni diverse: erano italiani, spagnoli, greci, francesi, tedeschi, svizzeri, inglesi, neozelandesi, statunitensi. Per la maggior parte studenti e disoccupati, impiegati, operai, ma anche professionisti, come avvocati e giornalisti.
Tutti i ricorrenti affermano di aver subito violenze. Alcuni sono stati picchiati più volte, fatti spogliare davanti ad agenti di sesso opposto. A molte delle ragazze vennero sottratti gli assorbenti, negando loro anche l’uso delle salviette igieniche. Altri hanno raccontato di aver dovuto gridare: “viva il duce, viva il fascismo, viva la polizia penitenziaria”. In alcune celle furono spruzzati gas urticanti. Disposti in fila, con il viso rivolto al muro, introdotti in caserma con calci, sputi e insulti, costretti a intonare filastrocche come: “Chi è lo Stato? La polizia! Chi è il capo? Mussolini!” e cori di “Benvenuti ad Auschwitz”. Alla maggior parte delle persone trattenute in caserma non vennero neanche elencate le colpe per le quali venivano posti in stato di fermo. Gli stranieri firmarono fogli senza capirne il contenuto. Furono lasciati tutti con pochissimo cibo e privati del sonno, costantemente rivolti contro il muro con le braccia in alto, senza poterle abbassare o riposarsi, se non in brevi intervalli. Fu impedito loro di chiamare famigliari, legali o i rispettivi consolati (per gli stranieri).
Norman Blair (Londra): «la polizia aveva il controllo assoluto. Era come se fossi scomparso dal mondo esterno».
Lena Zühlke (Amburgo): «continuavano a colpirmi sul fianco destro e sentivo le costole spezzarsi. Allora ho cercato di proteggere le costole con il braccio. Era terribilmente doloroso. E poi mi hanno ferito alla testa e ho sentito il sangue caldo che mi colava sulla faccia. Mi hanno afferrata per la testa e mi hanno trascinato per le scale. E io pensavo: ‘se mi fanno scendere le scale così, mi spezzeranno i denti’. Perciò ho puntato le braccia, per evitare che la faccia sbattesse con forza sulle scale, ma loro mi colpivano le dita».
Quella di Marco Poggi, infermiere penitenziario, è invece una testimonianza che si distingue dalle altre, in quanto unico funzionario ad aver testimoniato contro colleghi e poliziotti e per questo minacciato e soprannominato ‘l’infame del Bolzaneto’. Entrò in servizio nella caserma Nino Bixio alle ore 20 del 20 luglio e ci rimase fino alle 15, 15.30 del 22. Dice: “ho visto picchiare con violenza e ripetutamente i detenuti presenti con schiaffi, pugni, calci, testate contro il muro. Picchiava la polizia di stato, ma soprattutto il gruppo operativo mobile e il nucleo traduzioni della polizia penitenziaria. Ho visto trascinare un detenuto in bagno, da tre o quattro agenti della penitenziaria”. E ancora: “alcuni detenuti non capivano come fare le flessioni di routine previste dalla perquisizione di primo ingresso in carcere. Meno capivano e più venivano picchiati a pugni e calci dagli agenti della polizia penitenziaria. Gli ufficiali, i sottufficiali guardavano, ridevano e non intervenivano. Ho visto il medico, vestito con tuta mimetica, anfibi, maglietta blu con stampato sopra il distintivo degli agenti della polizia penitenziaria, togliere un piercing dal naso di una ragazza che era in quel momento sottoposta a visita medica e intanto le diceva: ‘Sei una brigatista?’”.
Undici, fra i 59 ricorrenti a Strasburgo, hanno accettato un accordo con il governo italiano, impegnato a versare 45mila euro a ciascuno per danni morali e materiali e per le spese legali sostenute nel corso degli anni. Per gli altri, la Corte ha riconosciuto risarcimenti che variano da 10mila a 85mila euro, in relazione all’entità dei danni morali.