UE: 5% per la difesa, ma a quale costo

Mentre nel quadrante medio orientale continua ad allargarsi il conflitto, in Europa si riflette sulla questione difesa. Ormai non più una possibilità, ma una realtà. Il vertice della NATO all’Aja, avvenuto due giorni fa, si è concluso con un impegno unanime delle nazioni europee che hanno accettato di fissare al 5% entro il 2035, la quota del bilancio dell’UE necessaria a finanziare la spesa militare. Ma come farà il Vecchio continente a raggiungere un simile obiettivo? E soprattutto a quale costo?
La posizione dei vari membri UE
A rispondere sono i singoli Paesi. Germania e Paesi Bassi si sono opposte all’ipotesi di obbligazioni comuni, mentre Italia e Francia non sembrano voler archiviare la questione. In particolare Berlino punta sulla via più cauta. Il forte aumento della spesa nazionale (ha creato un fondo speciale da 100 miliardi per ammodernare l’esercito dopo l’invasione russa dell’Ucraina) si alterna alla richiesta di criteri economici chiari per la gestione delle risorse UE.
Dalla Spagna, invece, arriva un grande “no” del governo Sanchez che sembrerebbe favorevole agli impegni NATO (come il 2% del PIL), ma con una nota politica a difesa della sovranità. Partecipazione volontaria sì, obblighi no: ogni Paese deve poter contribuire su base volontaria, senza imposizioni da parte di Bruxelles che minino il welfare nazionale. Di una posizione simile anche il Belgio, un Paese ad alto debito pubblico, che ha chiesto più tempo e flessibilità e una revisione del piano nel 2029.
Così se l’Europa vuole rafforzare la sua spesa militare – lo dimostrano i 160 miliardi di euro destinati a Kiev, di cui oltre 59 in aiuti militari – dall’altra parte non è ancora chiaro chi pagherà, con quali strumenti e a quale prezzo politico ed economico.
Prospettive future e compromesso politico UE
In sintesi non ci sono direzioni chiare sul corso che seguirà il piano europeo, ma si può prevedere un conto salatissimo. A preoccupare sono soprattutto quei Paesi come l’Italia che non possono facilmente aumentare la spesa pubblica senza rischiare di superare i limiti di deficit imposti dall’UE e indebitarsi ancora di più.
Bisogna inoltre ricordare che l’obiettivo non sarà immediato, ma spalmato su undici anni (fino al 2035). E la flessibilità un’opzione attuabile per quei Paesi con deficit cronici (come Italia, Spagna, Belgio) o con una sensibilità per le politiche interne anti-militariste. Il 2029 poi è un anno chiave. Un anno in cui revisionare gli obiettivi comuni e fare il punto. Infatti, secondo il direttore Pietro Batacchi, una possibile diminuzione della minaccia (es. da Russia o terrorismo), potrebbe anche allentare la corsa agli armamenti.
Criticità dell’obiettivo comune e la spesa dei contribuenti
Tra i dubbi emersi riguardo l’obiettivo di aumentare la spesa militare c’è sicuramente la sostenibilità di tale manovra. In prima analisi perché acquistare più armamenti significa che una larga fetta di quei soldi “esce” dall’economia europea, senza generare produzione interna, posti di lavoro locali e ritorni fiscali per gli Stati membri. I Paesi europei, infatti, spesso acquistano da Stati Uniti, Corea del Sud o Israele.
A ciò si aggiunge che l’industria della difesa europea è ancora piccola per assorbire una domanda che cresce in maniera così repentina. Inoltre se spendere di più in difesa può aiutare l’economia all’inizio, a lungo andare qualcuno dovrà pagare il conto (con tasse o tagli). E a pagare saranno proprio i contribuenti.
Aumentando le tasse o indebitandosi, ogni singolo Stato può riuscire a trovare il finanziamento necessario, ma in tutti i casi, tagliare altri servizi pubblici significa anche ridurre la qualità della vita: meno pensioni, scuole peggiori, sanità più lenta. In assenza di una strategia comune di un vero equilibrio tra sicurezza e benessere, l’aumento della spesa militare potrebbe diventare un fardello più che un’opportunità. E all’Europa, ora più che mai, è richiesto di intervenire al più presto in un contesto geopolitico sempre più complesso.