Cosa non ha funzionato nella comunicazione della pandemia
Il nuovo provvedimento del Ministero della Sanità in merito alla pubblicazione settimanale e non più giornaliera del bollettino Covid ha scatenato come di consueto posizioni molto contrastanti. La morale di questa triste parabola ormai al capolinea è che se la scienza si fa strumento politico è il dibattito a farne le spese, e con esso ogni principio democratico.

Il neo ministro della Sanità Orazio Schillaci ha annunciato qualche giorno fa che il bollettino Covid che fotografava lo stato dei contagi e delle morti da Sars-Cov-2 in Italia verrà pubblicato ora con cadenza settimanale e non più giornaliera.
La notizia è stata commentata in maniera contrastante dai medici. Segno questo che la polarizzazione delle opinioni legate alla gestione della pandemia — a differenza dello stesso virus — non vuole accennare a placarsi, anzi.
Il neo senatore del Partito Democratico Andrea Crisanti ha fatto sapere che per lui il bollettino Covid da quotidiano a settimanale «è una decisione politica inutile, preferiscono non sapere quanto aumentano i casi. L’hanno tolto perché ai cittadini fa paura. Io lo avrei fatto ogni mezza giornata».
Gli fa eco l’ex Direttore del Reparto Malattie Invettive dell’ospedale Sacco di Milano, Massimo Galli, per il quale la scelta della comunicazione «non è giustificata, a meno che si pensi che gli italiani siano una popolazione suggestionabile alla quale bisogna tenere nascoste le cose».
Dall’altra parte della barricata, si è dichiarato sostanzialmente favorevole alle nuove misure Massimo Andreoni, Primario di infettivologia al Policlinico di Tor Vergata, centro in cui il Ministro Schillaci fu prima Direttore del dipartimento di Oncoematologia, poi Rettore dell’Università.
Tra i favorevoli registriamo anche Maria Rita Gismondo, e Filippo Anelli, in rappresentanza dell’Ordine dei Medici.
Dissenso informato: per una salvaguardia del dibattito
Insomma, se c’è una morale che dovremmo aver appreso dalla moderna parabola del Covid-19 è che la scienza, se ridotta a dibattito semplificato, appare una disciplina tutt’altro che oggettiva.
E sui paradossi dell’informazione legata alla pandemia, un libro irrinunciabile tra i tanti usciti in questi ultimi due anni è Dissenso informato, edito da Castelvecchi.
Si tratta di una miscellanea composta da numerosi saggi a firma di accreditati antropologi, sociologi, giornalisti, docenti universitari il cui obiettivo è provare ricostruire le tappe comunicative che, almeno dal punto di vista mediatico, hanno reso questa emergenza pandemica ancor più critica che in altri paesi.
Bene spiega la situazione Francesca Capelli, quando, a un certo punto del suo saggio dal titolo Gli italiani alla prima crociata. La Covid-19 come genere discorsivo scrive: «Il virus ha funzionato come acceleratore di un processo di moltiplicazione dei punti di osservazione, e ha cambiato i rapporti tra sorvegliante e sorvegliato: tutti osservano e al tempo stesso sono osservati; senza nessuna separazione tra pubblico e privato, tra lavoro e tempo libero, tra polizia e rapporti di vicinato.»
Il rapporto tra sorvegliato e sorvegliante salta, così come in discussione viene messa ogni tipo di istituzione novecentesca. Se l’informazione non è più chiara, allora non sarà autorevole nemmeno la voce dell’istituzione che comunica. E se l’istituzione perde la fiducia dei cittadini — sia essa carta stampata, istituto di ricerca, ministero — a farne le spese sarà la democrazia e i suoi imprescindibili equilibri.
Il risultato è che, per parafrasare il sottotitolo del libro, lì dove è il dibattito a mancare, le possibili alternative saranno sempre meno.