Il patto Nato di Erdogan

L’invasione dell’Ucraina è diventata il trampolino di lancio per rinnovare il patto atlantico: nuove alleanze militari, una “nuova Nato”. La motivazione sembra girare intorno al nemico comune, Vladimir Putin. Al vertice di Madrid della scorsa settimana, la Nato ha ritrovato quella linfa vitale, quell’identità che stava perdendo nel 2019. Oggi, gli alleati si raccolgono intorno allo scopo originario: la difesa collettiva della zona euro-atlantica rispetto all’attuale minaccia più diretta, la superpotenza Russa. Uno scopo che ha oscillato, tra alti e bassi, dalla caduta del Muro di Berlino fino alla disastrosa ritirata da Kabul dell’anno scorso. Ma arrivati al 2022, stando ai sondaggi, l’Alleanza sembra essere la scelta migliore da parte delle democrazie occidentali. Tra queste, anche le neutrali (fino ad ora) Svezia e Finlandia.
Con il conflitto in corso, la Nato è pronta a rendere più credibile il suo compito difensivo: l’aumento delle forze armate passerà da 40mila a 300mila uomini. Previsti anche nuovi sistemi di difesa aerei in Germania e in Italia insieme alla formazione di nuove truppe in Romania e un nuovo comando in Polonia.

Cos’è cambiato tra Svezia, Finlandia e Turchia
Quello che si è verificato durante il Summit di Madrid dell’Alleanza Atlantica è un accaduto di portata storica: la fine del “veto turco” nei confronti di Svezia e Finlandia. Un evento che non si ripercuote solo sui governi di Helsinki e Stoccolma, ma va a toccare tutta una serie di questioni politiche che ad oggi, sembrano solo essere cambiate a favore del presidente turco, Recep Tayyip Erdogan.

Il popolo curdo: da eroi a terroristi
La premier svedese Magdalena Andersson e il presidente finlandese, Sauli Niinisto, hanno “sacrificato” gli interessi del popolo curdo, una minoranza che da anni lotta per avere riconosciuta la propria indipendenza. La questione curda è stata infatti il perno centrale delle richieste del governo di Ankara, che ha sfruttato la situazione per colpire ancora una volta quelli che vengono considerati “terroristi”. Dunque, le due nazioni si sono impegnate a riconoscere come organizzazione terroristica il Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK), così come accade in Turchia, Usa e Unione Europea oltre all’interrompere qualsiasi rapporto con i curdi siriani, specialmente con l’Unità di Protezione Popolare (Ypg) che ha combattuto proprio al fianco degli Stati Uniti e dell’Occidente contro l’Isis nel Rojava Siriano, i cosiddetti “eroi di Kobane”.

Gli estradati e l’embargo alle armi
In Svezia attualmente, ci sono 100mila rifugiati di etnia curda. Con l’entrata del paese nella Nato, il governo di Stoccolma si impegna ad estradare coloro che la Turchia ritiene terroristi. Sull’elenco stilato ci sono già 33 nomi: 17 del PKK e 16 del movimento di Fethullah Gulen (accusato di essere il responsabile del golpe del 2016): attualmente, 12 si trovano in Finlandia e 21 in Svezia.
Un accordo, quello stilato martedì, che ha suscitato non pochi dubbi tra i membri dei vari governi presenti a Madrid. Ma l’imbarazzo generale sta già nel dover collaborare con quello che di fatto è definito come un “dittatore” e che già nel 2016 era giunto ad un primo successo, con l’accordo sui migranti con l’Unione Europea. Oltre all’estradizione dei “terroristi”, i due paesi si sono impegnati anche ad esportare armamenti verso Ankara, a fronte di un embargo che esisteva da anni nei confronti della Turchia.
Erdogan infatti, sarebbe già al lavoro per nuovi attacchi militari indirizzati ad una buona fetta delle zone settentrionali della Siria, ambite dal Presidente già da tempo. Magdalena Andersson, la premier svedese, ha dichiarato più volte che l’accordo “era la cosa più giusta da fare” ma di ritorno a casa, la aspetta un clima teso che metterebbe a rischio il suo stesso governo: “dobbiamo armare Erdogan per sostenere la sua guerra di aggressione in Siria?” si è domandato il leader della sinistra svedese, Nooshi Dadgostar. Preoccupazioni che hanno trovato l’appoggio anche della leader dei Verdi, Marta Stenevi e di Amineh Kakabaveh, deputata indipendente di origini curdo-iraniane. Nonostante qualche settimana fa, il suo voto d’astensione alla mozione di sfiducia all’esecutivo, ha impedito la fine del governo, le sue ultime dichiarazioni hanno già preannunciato un’intensa battaglia contro chi “ha tradito”. Nonostante ciò, la premier ha rassicurato che le estradizioni anche se dipenderanno dalle direttive turche, faranno sempre riferimento al diritto internazionale e alla Convenzione europea sulle estradizioni.
Ovviamente, di fondamentale importanza è stato l’incontro tra il presidente degli Stati Uniti, Joe Biden ed Erdogan. Sul tavolo della discussione non solo la questione finlandese e svedese ma anche gli accordi per la consegna di 40 caccia F-16 e i ringraziamenti da parte di Biden, per l’impegno ad aprire corridoi del grano ucraino.

Erdogan ha il coltello dalla parte del manico
Come preannunciato già nell’ infelice uscita di Mario Draghi dell’anno scorso, Erdogan è un dittatore “che serve” proprio perché rappresenta il perno centrale di quell’Alleanza che con la guerra in Ucraina si sta solo che rafforzando. La Turchia, dalla sua entrata nel Patto Atlantico nel 1952 costituisce il secondo più grande esercito dopo quello americano e l’ottavo al mondo. Con i nuovi accordi di martedì scorso, il Mar Baltico diventa un mare che ha solo paesi affacciati appartenenti alla Nato, confermando la permanenza dell’organizzazione sul suolo europeo. Una presenza che dimostra la volontà da parte americana di impedire la formazione di quel sogno francese e tedesco: un fronte armato che sia “davvero europeo”.
