Le ciliegie di Hegel

La parola libertà è tornata prepotentemente in auge con i due anni di crisi pandemica. Perché ce ne siamo sentiti, in modo straniante per noi occidentali, privati. Per questo ha deciso innanzitutto di indagarla, nella sua millenaria storia, nelle sue molteplici vesti? Da Prometeo alla Cristianità, dalla Rivoluzione Francese al sogno napoleonico e così via?
Da due anni e mezzo la parola “libertà” è ricorsa nei nostri discorsi forse come non mai nel recente passato. In effetti, con l’emergenza sanitaria globale abbiamo sopportato restrizioni alle libertà personali che non avevano precedenti nella nostra storia repubblicana. E nelle società occidentali si è acceso un dibattito lacerante sulle misure adottate da presunti governi liberticidi per contenere il contagio. Poi, a qualche centinaio di chilometri da noi, è scoppiata una guerra sanguinosa che rimette in gioco nel senso più drammatico la questione della libertà. La verità è che ci interroghiamo sul senso della libertà sin dalle origini, sin dal mito: Prometeo che ruba il fuoco agli dèi per donarlo agli uomini è il simbolo della ribellione per l’emancipazione umana. Perciò mi sembrava opportuno riandare alla radice del nostro concetto borghese moderno di libertà e raccontare quel momento storico-sociale in cui l’evoluzione del pensiero ci ha portato a ritenere che la libertà sia un irrinunciabile valore universale. Hegel sosteneva che la storia ha un fine, e questo fine è la libertà.
Questo viaggio di scoperta dell’uomo, in altre occasioni l’ha definito come una vera e propria “odissea”. Cosa intendeva dire?
La libertà ha assunto sembianze molto diverse nel corso nel tempo. Ad esempio, siamo soliti celebrare la democrazia ateniese, ma quella società si basava sulla schiavitù, che oggi ripudiamo. Inoltre, essere liberi può significare individualmente anche cose molto diverse per ciascuno di noi. Nel libro racconto le peripezie esistenziali di tre giovani amici – Hegel, Schelling e Hölderlin – che furono i più grandi protagonisti della disputa sulla libertà del loro tempo. Ma avevano personalità estremamente differenti l’uno dall’altro. Schelling è il genio, sfrontato e altezzoso, un enfant prodige: a soli quindici anni fu ammesso agli studi universitari. Diceva: “L’alfa e l’omega di tutta la filosofia e la libertà”. Ma morì solo e quasi dimenticato, dopo che il suo pensiero era diventato sempre più circospetto e conservatore. Hölderlin è bello e fragile, intransigente, il più vero: non accettò mai compromessi e non smise mai di inseguire liberamente i suoi sogni e le sue aspirazioni di poeta. Ma trascorse trentasei anni, la metà della sua vita, recluso in una torre, in preda alla follia. Hegel invece è ambizioso, pragmatico, accomodante: blandì i potenti, si piegò di fronte a qualche personalità influente, nascose alla censura il suo vero pensiero pur di guadagnarsi la libertà. E alla fine andò incontro a una piena realizzazione: raccolse successi, gloria e denaro. Tre caratteri e tre biografie molto diverse, quindi. Ma chi fu il più libero dei tre?
Lei è in qualche misura un giocoliere dei dati, da cui trae e va a disegnare geometrie di significato. Che numeri ci dà sulla libertà nel mondo e quali traduzioni di senso?
Credo che pochi sappiano che oggi soltanto il 20% della popolazione del mondo gode di una piena libertà. In Africa la percentuale scende al 7%, in Asia al 5%, in Medio Oriente al 4%, nell’Eurasia – regione che ricomprende la Russia, la Bielorussia, le ex repubbliche sovietiche centroasiatiche – allo 0%. Inoltre, con il tempo le cose peggiorano. Nell’ultimo anno abbiamo registrato il numero di Paesi liberi nel mondo più basso di tutti i quindici anni precedenti. La modernità razionale e liberale sembra indietreggiare. Abbiamo la sensazione che abbia perso appeal, perché non riesce a dare risposte alle aspettative soggettive come in passato e a mantenere le promesse di crescita del benessere collettivo.
Oggi non pare esserci necessariamente una correlazione tra benessere economico, aspettativa di vita, grado di istruzione e libertà goduta. L’esempio di un Paese come la Cina, prospero ma dal regime autoritario e illiberale, ne è la prova lampante. Da qui la domanda del libro.
È esattamente così. Negli ultimi trent’anni, in Cina il Pil è aumentato di 14 volte, il tasso di mortalità infantile è stato ridotto da 42 a 7 ogni mille nati, l’aspettativa di vita si è allungata da 69 a 77 anni, il tasso di iscrizione all’università è passato dal 3% al 58% dei giovani che concludono gli studi superiori, la popolazione in miseria era pari a due terzi del totale e oggi è appena lo 0,5%. Eppure, in Cina il potere è in mano a un regime autoritario e illiberale. Allora, a cosa serve la libertà, se una società può stare meglio anche senza essere libera? Qualcuno potrebbe iniziare a porsi questa domanda scottante. Non a caso, anche in Europa si parla senza più pudori di “democrazie illiberali” come modello alternativo e più efficace.
La Sua è una formazione filosofica, accuratissime pertanto le pagine dedicate ai tre filosofi protagonisti del dialogo del loro tempo sulla libertà: Hegel, Hölderlin e Shelling. Sarà Hegel che alla fine però Le permetterà di azzardare una possibile, fiduciosa, risposta, vero?
Hegel era convinto che il disegno razionale dell’intelligenza collettiva, consistente nella progressiva realizzazione della libertà nella vita dei popoli attraverso il corso della storia, fosse una conquista irreversibile, una volta che se ne fosse presa coscienza. Diceva anche che la storia è “un mattatoio”. È quel che succede quando la storia non raggiunge il suo fine – la libertà – e anzi si rimette in moto. Lo constatiamo inorriditi da mesi ormai.
“Le ciliegie di Hegel” è pubblicato tra i saggi. Le 280 pagine di questo libro trasudano conoscenza, ma scorrono anche via veloci tra inediti aneddoti e cronache di passioni e schermaglie, battaglie personali e ondivaghe conquiste e perdite della propria, quale che sia, libertà. E risentono senz’altro, chi conosca personalmente l’Autore se ne accorgerà, di quella un po’ ipnotica capacità di affabulazione che sola appartiene, forse, a chi si senta empaticamente legato a ciò di cui parla. In questo caso agli uomini, alla loro fragilità e alla loro insaziabile curiosità e spinta ad andare avanti. Nella conoscenza, certo, ma anche nella affermazione di sé e, perché no, nel cercare di cogliere, come una ciliegia, l’opportunità di essere felici.

Pagine della versione a stampa: 288 p. // EAN:9788833319360
Massimiliano Valerii Direttore generale del Censis, dove è stato anche responsabile della comunicazione, Massimiliano Valerii ha studiato Filosofia a Roma per poi dedicarsi alla ricerca sociale, economica e territoriale. È il curatore dell’annuale “Rapporto sulla situazione sociale del Paese”, tra i più qualificati e completi strumenti di interpretazione della realtà socio-economica italiana. Da qui è emersa la definizione di “società del rancore”, divenuta una chiave di lettura ripresa dai mezzi di informazione e dal dibattito politico. Con l’editore PONTE ALLE GRAZIE ha già pubblicato nel 2019 “La notte di un’epoca. Contro la società del rancore. I dati per capirla e le idee per curarla” e nel 2020 “Il contagio del desiderio”.