Come mai la tendenza degli ultimi vent’anni in tutti i paesi occidentali sembra indicare la progressiva perdita di consenso dei riformisti e delle sinistre in genere presso le classi lavoratrici, a favore di populismi di matrice destrorsa, sovranisti, se non proprio xenofobi?
E perché proprio i partiti di sinistra, che sono storicamente gli eredi della tradizione marxista, sembrano essere oggi i principali alfieri delle politiche economiche neo-liberali?
Ciò che potrebbe sembrare all’apparenza una contraddizione, risulta a un’analisi più profonda un processo assolutamente coerente.
Dopo il crollo del muro di Berlino, la grande chimera delle sinistre, che le ha portate ad abbracciare il liberismo economico, è quella di avere pensato che estendendo il benessere economico, si sarebbe naturalmente ampliata anche la platea di coloro che avrebbero avuto accesso ai diritti sociali. Automatismo di per sé vero, ma che non tiene conto di una realtà di cui da qualche anno a questa parte abbiamo evidenza in maniera sempre più preoccupante, ovvero la carenza di risorse. In un contesto in cui i beni sono limitati e le crisi sono cicliche, quello che accade è che a una flessione della situazione economica corrisponde un restringimento dei diritti sociali, in particolare quelli del lavoro, soprattutto quando non sono soggetti a rivendicazione.
I più attenti si saranno resi conto che questo fu il problema centrale sorto in seno alla Quarta Internazionale. È esattamente la disputa tra Trotzskij e Stalin a proposito della necessità di internazionalizzare la rivoluzione o, al contrario, realizzare il socialismo in un solo paese. La ragione per cui prevalse la seconda opzione, al netto della vittoria, anche e soprattutto violenta e barbarica, degli stalinisti, fu la consapevolezza che fosse controproducente disperdere energie, anche finanziarie, nel supportare moti di rivolta al di fuori dell’Unione Sovietica, ma che fosse più sensato concentrare tutti gli sforzi all’interno della pianura sarmatica.
Quando studiai il biennio rosso, mi stupii di come molti storici marxisti incolpassero il sindacato della mancata rivoluzione in Italia. Una prospettiva di quel tipo in quel preciso frangente non era così impensabile come potrebbe risultare oggi. Non ci si dimentichi che solo due anni prima c’era stata appunto la rivoluzione bolscevica e di lì a poco avrebbe preso il potere Mussolini. Questo per dire che poteva davvero succedere di tutto. Il sindacato ai loro occhi fu lo strumento che i capitalisti utilizzarono per mantenere la pace sociale in cambio di poche briciole. Il welfare state come palliativo per garantire quel poco di serenità ai lavoratori, senza concedere troppo, ma comunque quel poco da scoraggiarli dal fare colpi di mano, o di Stato!
Durante i favolosi anni ’50, ’60, ’70 in molti paesi occidentali è avanzato il capitalismo e con lui lo stato sociale, riducendosi i divari. Oggi il capitalismo sembra essere in crisi e gradatamente si smantella lo stato sociale. Il meccanismo è un po’ quello della fisarmonica dove allungamento e restringimento dei due poli sono direttamente proporzionali. Probabilmente l’unica salvezza per la sinistra è non cedere alle facili illusioni e, pur evitando di cadere nella nostalgia, ritrovare un’identità propria.