Davide contro Golia, questione di leadership

Il recente conflitto tra Russia e Ucraina ci pone fatalmente nel confronto tra due stili di leadership radicalmente differenti, quelle incarnate da Vladimir Putin e Volodimir Zelenski. Leader drasticamente antagonisti che, riescono al di là di confini territoriali tanto limitrofi quanto contesi, a raccontarci i due paesi tra carri armati, barricate e disinformazione mediatica dove non è così scontato distinguere tra chi in questo momento è il pastorello e chi il gigante.

Vladimir Vladimirovič Putin, nato a Leningrado il 7 ottobre 1952, ex militare ed ex funzionario del KGB russo, presidente della Federazione Russa dal 7 maggio 2012, è al suo quarto mandato. Ha trascorso gran parte della sua vita all’interno del Kgb, l’ingresso in politica avviene solo negli anni Novanta con la scalata che lo porta, il 31 dicembre 1999, al Cremlino. La sua politica interna è interamente giocata su una narrazione che da anni sfrutta la cosiddetta post-verità, in sostanza una verità digitale che fa forte appello all’emotività, slegata da fatti concreti, basata su credenze diffuse e che tendono ad essere accettate come veritiere, influenzando l’opinione pubblica. La combinazione di mondo reale e mondo digitale è l’interrealtà che produce fatti sociali che si impongono esattamente come i fatti reali, con il valore aggiunto di una dimensione globale e una velocità di coinvolgimento mai visti prima, autentica manna per la propaganda politica. La disinformazione e il gioco della propaganda sono sempre esistiti, tuttavia l’attuale fenomeno, sintesi di un dettagliato lavoro di ingegneria comunicativa e sociale in grado di influenzare una collettività inimmaginabile un tempo, è del tutto nuovo e porta il nome di fake news.
Il presidente russo, conoscitore esperto delle procedure di disinformazione dei servizi segreti e attività di spionaggio e controspionaggio, viene puntualmente descritto da Sergio Romano nel suo volume “Putin e la ricostruzione della grande Russia“, come un impeccabile nazionalista che avendo sofferto il crollo del potere sovietico in Europa si pone l’obiettivo della restaurazione dell’autorevolezza del suo paese nel mondo. Il resto lo sta confermando la cronaca quotidiana, Vladimir Putin da anni si occupa di fondere il fenomeno social di massa di una verità chirurgicamente deformata ad hoc e portato alla luce con le elezioni del Presidente Donald Trump, con uno stile di leadership autocratica che affonda invece nel più buio passato. La figura politica che evoca il leader come padrone, se non addirittura come divinità, che a fronte di qualsiasi dissenso reagisce con la più dura risposta repressiva sta riportando alla memoria dittature che per l’occidente sembravano riservate alle pagine dei manuali didattici. Tuttavia, le vicende che si susseguono evidenziano anche come le più studiate delle tattiche maggioritarie possano vacillare, il group think, ovvero la dinamica del pensiero “gruppale”, di uno staff politico che si sottomette ad un consenso cieco che non ammette pensiero critico o dissenso, è stato spesso alla base dei peggiori insuccessi politico militari, il fallito tentativo di rovesciare il governo di Cuba, o la guerra in Vietnam possono rappresentare due validi esempi.

L’invasione dell’Ucraina dello scorso 24 febbraio esattamente a causa del fenomeno mediatico dell’interrealtà che cementa mondo offline con mondo online ha posto Vladimir Putin sotto i riflettori del mondo intero, ma il fascio di luce a suo discapito non è orientato sulle muscolari strategie di guerra, bensì sulla relazione di potere tra il dittatore e la sua popolazione, i suoi virtuali seguaci, in particolare sul modo in cui il dittatore tratta il suo stesso popolo, la sua nazione. Il presidente non riesce più a indurre i suoi fedelissimi a fare qualsiasi cosa. Se volesse potrebbe in realtà esercitare efficacemente la sua leadership entro i limiti di un’identità partecipata ma, nei fatti, tutto ciò è assente. In questa feritoia il dittatore che sa usare l’inganno mediatico come arma letale, si è scontrato con la sua crepa.
L’intesa delle sue relazioni concretizzate in una fitta rete di convenienze, sudditanza e inevitabile corruzione sta cedendo, imponendogli, a dispetto della tragedia umana da lui invocata, un’immagine individuale fragile tale da far sprecare costanti tentativi di analisi e confronti sui talk show di tutto il mondo. Nella volontà coercitiva di un conflitto Vladimir Putin non ha offerto come avrebbe voluto la sua ostentata figura di impenetrabilità, la glaciale volontà di non mostrare, l’incapacità di condividere e la predisposizione a manipolare non ha trascinato il suo popolo, non ha sedotto i suoi sostenitori, non ha convinto, ha involontariamente proiettato l’immagine di un uomo isolato. I manifestanti arrestati giovani e meno giovani, i personaggi pubblici e i noti sportivi, gran parte dei giganti industriali e delle banche globali, società di leasing di aeromobili, colossi del fossile e gli stessi oligarchi gli stanno girando le spalle abbandonando la sua nave, membri di un equipaggio che non si considera evidentemente obbligato né legato in qualche modo a lui come autorità tantomeno come individuo.
Commettendo l’errore cruciale di non riuscire a farsi riconoscere come voce nazionale sta dimostrando al più vasto dei suoi pubblici che esercitare un’autentica leadership non significa agire contro la volontà del proprio popolo ma insieme a loro, compromettendo così ogni sua forza coercitiva dittatoriale e ispirando in tutte le piazze del mondo la sensazione di perdere il comando.
Contemporaneamente al di là delle barricate, improvvisate con barriere di sacchi di sabbia da giovani militanti con mimetiche cucite a mano con stoffe di risulta e folle di inermi scudi umani, assistiamo ad uno poderoso “NOI”, un’eccezionale identità collettiva stretta intorno alla figura di Volodimir Zelenski e al suo grido di dolore per l’Ucraina.
Zelensky, attore satirico, deve la sua fama ad una serie tv titolata “Servo del Popolo”. Interpretando il ruolo di un professore denunciava tramite il web il marcio della politica nazionale e diventava talmente popolare da essere poi eletto Presidente. Alle elezioni del 2109 Servo del Popolo è diventato il vero nome di un partito che dopo essere finito largamente in testa ha sconfitto il presidente uscente e Zelenski, stravincendo, si è concretamente insediato come neo presidente ucraino.
Dopo un promettente inizio, le riforme strategiche si erano cominciate ad arenare anche a causa dell’inasprirsi della battaglia di posizione con la Russia sfociata nell’attuale conflitto armato, rivelando al mondo intero l’insospettabile, rivoluzionaria forza di un presidente salito al potere privo di alcuna esperienza politica. Zelenski si sta imponendo all’opinione pubblica come insospettabile Davide contro un impacciato Golia, utilizzando egli stesso la rete sociale e digitale twitter in particolare, per affermare la sua leadership, in direzione graniticamente opposta al suo rivale. La scelta estetica traduce già i suoi intenti, indossa abiti militari con colori mimetici che mettono in risalto la sua capacità verbale e non verbale collocandolo al fianco di qualsiasi cittadino ucraino, immagini semplici e indelebili dove la forza e l’emozione della parola prevale su tutto, un presidente guerriero che parla in un unico tempo ai militari come rappresentante della nazione, alla nazione come militare e al mondo intero come cittadino ucraino. Il leader ha saldato in un tutt’uno l’individuo con le truppe e con il Paese. Gli interventi mediatici di Zelenski scarni e senza l’ombra di orpelli riescono ed essere solenni esattamente come non lo sono le imponenti apparizioni di Putin più vicine a delle “camere di risonanza”, eco di convenzionalità retoriche volte ad alimentare una personalizzazione politica mai condivisa quanto sofferta dai russi, le immagini e le parole di Putin includono confini prima ancora che territoriali, del tutto individuali.

Zalenski all’opposto sa sin troppo bene che essere “visto” come rappresentante dei suoi seguaci, è la condizione necessaria per essere scelto come tale, l’ha sperimentato già nella sua rivoluzionaria campagna elettorale, il potere di dare forma alla realtà attraverso la rappresentazione è il suo pane quotidiano. Lui non sceglie la narrazione di un mito eroico e distaccato, elimina qualunque rigida differenziazione tra lui e il suo popolo dimostrando che qualunque cosa distingua un leader dal gruppo ne riduce la capacità di leadership.
Il presidente ucraino è senz’altro davanti a condurre il suo popolo ma mai tanto davanti da distaccarsene, la sua è l’impresa di una popolazione un vigoroso “carburante energetico” che alimenta la forza identitaria dell’Ucraina, modellando eccezionalmente una nuova prospettiva politica non solo interna ma dell’intera realtà sociale mondiale.
La storia racconta da sempre di vincitori e di vinti e l’attuale capitolo è ancora all’inizio ma l’accostamento tra i due volti, i due statisti che raffigurano questo conflitto, anticipa già tanto lasciandoci assistere allo scontro tra i più antichi pregiudizi che alimentano la personalizzazione politica insieme alla sordità verso le voci delle piazze base di ogni dittatura contro la forza emotiva e paritaria ispirata dalla forza del gruppo, in cui tutti gli individui coinvolti capo e seguaci si identificano l’uno con l’altro in vista di un obiettivo di ordine superiore contro ogni suprematismo individuale, tipico di una moderna leadership. Putin dà ordini trovando resistenza e muovendosi secondo una logica di privilegio ormai decontestualizzata, Zalenski fa sì che le proprie azioni, difendendo e rappresentando esclusivamente i valori e l’identità del suo Paese, ispirino il duro lavoro di tutti e a quanto pare di gran parte del globo terrestre.

Gesù non era forse un’estremista dell’amore? [….] e Amos non era forse un’estremista della giustizia? […] Paolo non era forse un’estremista del Vangelo cristiano? [….] E Abramo Lincoln […] e Thomas Jefferson […] Perciò non si tratta tanto di sapere se dobbiamo essere estremisti o no, ma piuttosto quale tipo di estremisti vogliamo essere. Saremo estremisti dell’odio o dell’amore? Saremo estremisti della conservazione dell’ingiustizia o dell’allargamento della giustizia? Martin Luther King . Lettera dalla prigione di Birmingham, 1963