Coronavirus. Gli abitanti delle baraccopoli romane cercano di sopravvivere all’emergenza

«Io resto a casa? No. Tu resti a casa. Io resto nel campo. Sta qui tutta la differenza!». A pronunciare questa frase è un abitante della baraccopoli di via di Salone, situata nella periferia est della Capitale. E sono queste parole, disarmanti nella loro crudezza, a collocarci nella realtà: a Roma, nel ventunesimo secolo e nel bel mezzo di una pandemia c’è ancora chi è irrevocabilmente condannato all’invisibilità.
È per rispondere a questo grido nel silenzio che, a seguito delle misure restrittive introdotte dal decreto del 9 marzo, gli operatori dell’Associazione 21 luglio hanno condotto un’indagine all’interno delle baraccopoli istituzionali di Roma, individuando cinque insediamenti formali monoetnici. La ricerca, svolta attraverso interviste telefoniche tra il 14 e il 17 marzo, è stata avviata con lo scopo di comprendere l’impatto delle misure restrittive “in alcuni insediamenti formali dalle città di Roma abitati da famiglie identificate dalle autorità locali e che generalmente si autodefiniscono come appartenenti alle comunità rom”.
L’eterna emergenza delle baraccopoli romane
Ad oggi è impossibile non avere la percezione che il mondo si è profondamente trasformato. Uscire per una breve passeggiata e riunirsi con i tanto discussi congiunti rappresenta una boccata d’aria fresca dopo mesi di isolamento forzato, ma la freddezza delle mascherine che coprono il volto dei passanti o la necessità di mantenere le distanze gli uni dagli altri camminando per strada ci ricordano che il virus non è scomparso, che dobbiamo imparare a convivere con un ospite indesiderato sperando che decida di abdicare dal nostro spazio. Anche la comunicazione si è modificata. Basta accendere la tv e in pochi minuti ci si troverà di fronte a spot pubblicitari pensati per disegnare i confini di una nuova realtà: fino a pochi giorni fa ci esortavano a restare a casa, oggi invece si tenta di inviare messaggi di speranza e ripartenza.
Se da un lato questi elementi sconfortano perché rimandano costantemente al momento complesso che stiamo vivendo, dall’altro ci consegnano la possibilità di agire per preservarci. Nominare le cose permette loro di esistere e permette a ciascuno di scegliere consapevolmente.

Sembra quasi che questa consapevolezza, per gli abitanti delle baraccopoli romane, sia un lusso da non potersi permettere.
«Nel campo ci muoviamo liberamente, ma non abbiamo le mascherine. C’è qualcuno che va troppo fuori. Abbiamo paura di avvicinarci troppo» e ancora «seguiamo le indicazioni della tv. Mi sono fatto un foulard e mi metto quello per fare la spesa. Ho comprato i guanti, ma i ragazzini me li hanno buttati», è questo il microcosmo che emerge dalle parole di due abitanti dell’insediamento di Via Cesare Lombroso.
Gli spot pubblicitari e le conferenze stampa del presidente del Consiglio potranno essere sufficienti per coloro che hanno la possibilità di chiudersi alle spalle la porta di casa, non bastano però a chi vive in una situazione di emergenza costante. Nonostante questo, nessun dispositivo di protezione individuale, nessuna campagna di informazione da parte delle istituzioni. Insomma, nessuna rinascita è riservata a chi lotta ogni giorno per poter essere visto.
Dal blog di Carlo Stasolla, presidente della 21 luglio, che dall’inizio di marzo denuncia la gravità della situazione, emerge un quadro preoccupante: «sovraffollamento sia interno alle unità abitative (abbiamo casi dove nuclei familiari di 6-7 persone devono condividere in 21 mq di un container malmesso) che esterno (alcuni insediamenti sono stati progettati per contenere la metà delle persone attualmente residenti); mancanza o carenza di servizi essenziali come l’acqua; assenza di informazioni relative alla prevenzione e di dispositivi di protezione individuale; impianti fognari non funzionanti e cumuli di rifiuti non raccolti; lontananza dai servizi sanitari di base. Questo è il quadro di una delle numerose baraccopoli che insistono nelle periferie romane».
Anche la città eterna sembra poter assumere le sembianze di un ghetto dove le persone devono fare uno sforzo per ricordarsi di esistere e la vita negli insediamenti romani viene preservata soltanto da chi, per vocazione, sceglie di squarciare il velo dell’invisibilità.
Coronavirus. L’Associazione 21 luglio sostiene le mamme e i bambini in condizione di fragilità
«L’Associazione 21 luglio Onlus è un’organizzazione non profit che supporta gruppi e individui in condizione di segregazione estrema e di discriminazione tutelandone i diritti e promuovendo il benessere dei bambini e delle bambine». Nel rispetto di questa missione, Carlo Stasolla e i volontari dell’Associazione hanno disposto un piano di aiuti alimentari volto al sostentamento di bambini da 0 a 3 anni.
Durante il monitoraggio è emersa la fragilità dei più piccoli: preoccupante era lo stato di malnutrizione di alcuni bambini da 0 a 3 anni le cui famiglie non dispongono della possibilità di procurarsi beni alimentari, considerando che le fonti di reddito sono state azzerate e che anche la solidarietà risente della paura, infatti «prima c’era un passaggio di beni da una famiglia all’altra, adesso per paura del contagio tutto si è bloccato».

Dopo aver effettuato dei colloqui con le mamme in difficoltà e con l’aiuto di un pediatra volontario che ha elaborato una dieta personalizzata in base alle fasce d’età, l’associazione ha individuato circa 200 famiglie bisognose alle quali consegnare pacchi bebé, donati da famiglie che hanno risposto alla raccolta fondi organizzata dall’associazione e si sono assunte questo impegno per tutta la durata dell’emergenza.
Il programma si struttura in questo modo: i beni acquistati vengono ritirati a domicilio dalle famiglie donatrici e poi stoccati nel Polo Ex Fienile, a Tor Bella Monaca. I volontari, dotati di guanti e mascherine, confezionano i pacchi in un’area verde che permette il mantenimento delle distanze di sicurezza e si provvede poi alla consegna nelle baraccopoli una volta alla settimana. Questo tipo di aiuto è stato esteso, tra l’altro, a 21 mamme del quartiere di Tor Bella Monaca.
Un’iniziativa lodevole che andrà avanti finché necessario, ma una volta terminata questa emergenza che sta coinvolgendo tutto il paese si dovrà lavorare perché termini l’eterna emergenza delle baraccopoli romane poiché, come ci ricorda Stasolla, è fondamentale «il superamento di questi spazi, inadatti a ospitare persone, considerati ghetti e isolati dal resto del mondo. I loro abitanti devono essere accolti in abitazioni tradizionali che garantiscano il rispetto dei diritti umani».