Conflitto Israelo-palestinese; l’ipocrisia occidentale di un genocidio

Il conflitto israelo-palestinese non è iniziato il 7 ottobre 2023 dalle forze terroristiche di Hamas. Il seme dell’intero disequilibrio nell’area del golfo persico, affonda le sue radici alla fine del XIX secolo. Per più di cento anni ha caratterizzato il destino di intere popolazioni di diversa estrazione sociale, culturale, religiosa. Rappresenterà la sintesi dell’ossessione religiosa, il “senso di colpa” occidentale e l’imposizione, diretta e indiretta, di complessi sistemi di potere nella scacchiera internazionale.
Con il romanticismo europeo, conseguenza artistico-letteraria alla rivoluzione francese, nasce l’embrione del nazionalismo contemporaneo. L’idea di una nazione, non in quanto madrepatria, ma come contenitore di persone unite dalle medesime origini, cultura popolare e territorio. La bomba che farà esplodere l’autodeterminazione dei popoli e la fine degli imperi. In questo panorama nasce la teorizzazione del sionismo, un movimento politico che vedeva nella terra di Palestina l’antica terra promessa del popolo ebraico.
Un breve cenno storico
Dopo la prima guerra mondiale, le potenze vincitrici si spartirono i territori arabi del defunto impero ottomano. Con il trattato di Sanremo (1920), venne affidata alla Gran Bretagna la gestione della Palestina, dell’Iraq e della Giordania. Iniziò da subito una lenta e inesorabile migrazione europea che cominciò a inasprire le relazioni con la popolazione locale. Con la fine della seconda guerra mondiale, venne affidato all’ONU il destino della Palestina. Con l’approvazione della risoluzione 181, si dichiarava la divisione del territorio in due Stati. Uno ebraico e uno palestinese, con Gerusalemme a giurisdizione internazionale.
Con la dichiarazione dello Stato d’Israele (15 maggio 1948) il conflitto israelo-palestinese esplose e la reazione araba non si fece attendere; Libano, Egitto, Siria e Iraq attaccarono Israele, provocando la prima di una serie di lunghe guerre. La guerra si concluse con la sconfitta dei paesi arabi e il consolidamento di Israele sul territorio. I palestinesi cominciarono progressivamente a perdere grandi porzioni della loro terra, a favore dei coloni israeliani. Iniziarono le prime migrazioni forzate verso i campi profughi di Cisgiordania, Libano e Siria. Migliaia di persone lasciarono le proprie case e si ritrovarono a vivere una vita intera con la speranza di poter ritornare, illudendosi di una giustizia internazionale che non sarebbe mai arrivata.
A peggiorare la situazione furono dapprima la “guerra dei sei giorni” (1967) e successivamente la guerra di Yom Kippur (1973), entrambe vinte da Israele. Le continue deportazioni, gli arresti forzati e le violenze nei confronti dei palestinesi, porteranno alla nascita alla nascita di Hamas (movimento resistenza islamica) e della famosa prima intifada (1987), conclusasi con il sangue di 1500 palestinesi e oltre 100 israeliani. Tra il 1993 e il 1995 (accordi di Oslo), si intravide lo spiraglio di una possibile soluzione. Tuttavia l’ascesa al potere del partito nazionalista di Netanyahu bloccherà ogni tentativo di uno Stato indipendente palestinese e porrà le basi per la seconda intifada (2000) conclusasi con un bilancio di oltre 4.700 morti, in larga parte palestinesi.
La politica di espansione nel conflitto Israelo-palestinese ha perdurato negli anni, contando fino a 450.000 coloni sparsi in territori ufficialmente riconosciuti parte della Giordania e della Siria (compresi Gerusalemme Est e le alture del Golan). Dopo una “piccola” intifada (2015), anche detta dei coltelli, attuata da alcuni giovani rivoluzionari e mai rivendicata da Hamas, ricominciarono gli sforzi per trovare una pace tra i due popoli.
Una speranza che durò fino al 7 ottobre 2023, giorno in cui il nostro paese, la comunità europea e l’occidente, persero la loro dignità e credibilità.
Un agghiacciante e disumano circo degli orrori
Proprio come accadde per l’attacco alle torri gemelle, il 7 ottobre 2023 ha segnato un momento di svolta nel conflitto Israelo-palestinese. Un punto di non ritorno, non solo per il Medio Oriente ma per tutto il mondo. Perché l’atto terroristico di Hamas, il più grande e brutale dai tempi della seconda intifada, non riguarda solo due popoli, ma il destino dell’attuale equilibrio internazionale. Con la morte di 1200 israeliani e il rapimento di 250 ostaggi, la risposta di Tel Aviv è stata la più atroce e disumana che si sia mai registrata nella Storia.
Da ben prima dell’attentato Amnesty International pubblicava report sulla drammatica situazione dei palestinesi. Si accompagnavano ripetute accuse di violazione del diritto internazionale ai danni di un popolo martoriato e dimenticato. Nel silenzio globale, la rabbia e la violenza cresceva, come un seme tossico pronto a germogliare e lanciare spore avvelenate contaminando tutto ciò che lo circonda. A farne i danni, ancora una volta, gli innocenti. Il primo passo in risposta all’attentato è stato un assedio completo, interrompendo a Gaza ogni tipo di approvvigionamento: cibo, acqua, carburante e medicinali compresi. La prigione a cielo aperto più famosa al mondo è diventata un circo degli orrori. Interi quartieri di Gaza sono stati rasi al suolo, rendendo l’intera striscia un cumulo di terra, detriti e fumo. Indistintamente sono stati demoliti edifici pubblici, ospedali, luoghi commemorativi e culturali.
In territorio israeliano si immagina una grande Israele, con pubblicità immobiliari che propagandano immagini di villette balneari al posto delle ormai devastate case palestinesi. Si incita all’odio, mentre intere famiglie vengono massacrate e private della loro identità e del futuro. Droni volano indisturbati, ad ogni ora del giorno e della notte, colpendo qualsiasi cosa si muova. Ma tutto questo non è sufficiente. I crimini di guerra di Israele crescono di mese in mese e con il pretesto della “lotta al terrorismo”, il massacro assume forme sempre più mostruose e fuori controllo.
I leader di Hamas possono nascondersi ovunque, anche all’interno di altri Stati sovrani. E così, aprire fronti di guerra in Siria, Iraq, Giordania e Libano è stato il passo successivo. A nulla è servita la condanna dell’Onu, e neanche le atroci urla di persone bruciate vive dentro un ospedale in fiamme, definite da Netanyahu “un tragico errore”. Non sono serviti i 43.000 morti ufficiali, di cui 17.000 bambini.
I medici senza frontiere denunciano situazioni sanitarie e umanitarie mai viste prima. C’è mancanza di strutture e medicinali, e per chi non muore sotto le macerie (le quali nascondono ancora migliaia di cadaveri), muore per fame. Tutto è concesso in nome della difesa e la sicurezza del popolo israeliano. E’ concesso usare armi e software di nuova tecnologia nei territori occupati illegalmente (zone dichiarate sicure dalla comunità internazionale), solo per fare marketing. Non sorprende, l’industria bellica israeliana è una delle più importanti al mondo; la guerra perpetua consente di testare armi e venderle maggiormente. L’export israeliano bellico produce un guadagno pro capite di 1300 euro per ogni cittadino israeliano.
E’ concesso usare le bombe al fosforo, uccidere i propri ostaggi e persino colpire ripetutamente le basi unifil in Libano, anch’esse definite un errore. E’ singolare la quantità di “errori” militari commessi da un esercito in grado di individuare nel dettaglio ogni testa di Hamas e i loro nascondigli oppure in grado di intercettare e far esplodere cerca persone. Netanyahu è arrivato ad uccidere più di 120 giornalisti per mettere a tacere ogni notizia che possa condannare il brutale operato. Nel frattempo profili social come eye on palestine, seguiti da milioni di persone, continuano a pubblicare video e foto di persone fatte a pezzi.
Una pavida Italia e lo spettro della terza guerra mondiale
Mentre folle oceaniche di persone si riversano nelle piazze di tutto il mondo per manifestare vicinanza alla Palestina, i governi europei stanno a guardare, senza fare nulla per sbloccare il conflitto Israelo-palestinese. In questo momento l’esistenza di Israele non è in pericolo, dall’altra parte l’esistenza dell’intero popolo palestinese è appesa ad un filo giorno dopo giorno. Il governo di Tel Aviv è a processo per genocidio, ovvero per una “metodica distruzione di un gruppo etnico, razziale o religioso, compiuta attraverso lo sterminio degli individui e l’annullamento dei valori e dei documenti culturali”.
Il Ministro degli Esteri Tajani ha affermato che l’azione di Israele “non è genocidio”, continuando a ripetere il mantra della lotta al terrorismo, ormai chiaro a tutti essere solo un pretesto. La sovranista, madre cristiana e fiera nazionalista Giorgia Meloni non proferisce parola sui bambini polverizzati dalle bombe, colpevoli solo di essere palestinesi. Soprattutto non accenna a promuovere un azione diplomatica consistente, come il riconoscimento di uno Stato di Palestina, né a cessare l’invio di armi a Tel Aviv.
Non è bastato neanche l’attacco alle basi Unifil italiane per destare il primo ministro dal suo tiepido sonno. La nostra forza si è tradotta in morbide e vuote parole di condanna da parte del Ministro della Difesa Crosetto. Forse gli ordini da Washington sono stati più duri del previsto e demolire ogni parvenza di rilevanza internazionale, è la scelta migliore per la scacchiera geopolitica.
Del resto Israele è l’unica democrazia del golfo persico. Nata grazie all’Onu e alleata degli Stati Uniti. Il leader della Nato non ha alcun interesse a perdere il controllo di quell’area. Non solo perché le prime 5 industrie belliche al mondo sono nordamericane, ma anche per interessi petroliferi e le vincenti partnership antiterrorismo, spesso rivelatesi cruciali. E così diviene chiaro che i motivi legati all’etica e alla morale sono tutte menzogne, viene punito solo chi intralcia gli obiettivi degli USA.
Lo dimostra la questione Russia-Ucraiana, in totale contrapposizione al conflitto israelo-palestinese, in cui l’occidente è stato inflessibile con Mosca. Una reazione senza precedenti in cui sono stati promulgati 15 pacchetti di sanzioni, uno più duro dell’altro. Inoltre la Russia è stata estromessa da ogni canale economico e commerciale con l’Europa, anche se a discapito dell’Europa stessa. Per quanto riguarda Israele invece, sembra essere autorizzata a fare tutto ciò che vuole senza conseguenze. Persino compiere il più grande massacro del nostro tempo.
In questo scenario, il mondo cambia giorno dopo giorno. Accordi e strategie si compiono nel glaciale silenzio di una guerra che nessuno sembra voler fermare. La Russia sta ormai abbandonando la sua illusione di un’alleanza politica ed economica con l’Europa, ormai totalmente asservita agli Stati Uniti. Volge il suo sguardo a oriente, verso la Cina. Riunisce nel suo tavolo i BRICS, formato dalle più grandi economie mondiali emergenti, con l’obiettivo di contrastare il potere economico del dollaro.
Spostando la bussola più a oriente, la situazione è ancora più preoccupante. La Cina di Xi Jinping muove il suo esercito e si avvicina a Taiwan, le esercitazioni militari si fanno più frequenti e allarmanti. L’isola è per la futura prima forza economica al mondo “una provincia rinnegata che deve essere riunita con la forza se necessario”.
Se Israele può fare quello che vuole in nome della sua terra promessa, allora la stessa repubblica popolare cinese può riprendersi qualcosa che reputa suo di diritto. Ma se questo dovesse accadere, la reazione dell’Occidente non sarà di qualche vuota parola o pacchetto di sanzioni. Sarà il concepimento della più terribile delle conseguenze, quella che i nostri padri e i nostri nonni hanno tentato di evitare, memori di un passato sempre più sbiadito, eppure così impresso nei nostri incubi.