La Morte si è nascosta: Umberto, grazie

Sarei curiosa di chiedergli, adesso, se è stato davvero abbastanza saggio da scendere a patti con la morte “per tutta la vita”, come diceva lui in quel famoso pezzo scritto per l’Espresso nel novembre di ormai 4 anni fa: io, personalmente, suppongo di sì. Lui era un po’ un guru, una parte considerevole della cultura italiana che ci ha salutato discretamente, alle 22.30 di ieri sera. E sto facendo una fatica immane a scrivere tutto al passato che non avete idea; forse devo ancora realizzare.
Ho appreso la notizia solamente stamattina, appena aperta la mia home di Facebook. Be’, conoscendolo, non so se sarebbe stato felice di sapere che migliaia e migliaia di italiani –e non solo- sono venuti a conoscenza della sua dipartita tramite un social network, visto e considerato che non molto tempo fa aveva dichiarato a La Stampa: “Il dramma di Internet è che ha promosso lo scemo del villaggio a portatore di verità”. Be’, l’unica verità che conosco adesso è che se n’è andato un tassello fondamentale della cultura di un intero Paese, con un curriculum tanto vasto da far spavento e con tutti i congiuntivi sempre al posto giusto. Eppure, non ho potuto fare a meno, in un momento di raccoglimento, di pensare che in questi ultimi due mesi è stato come veder scorrere di fronte a molti di noi gran parte del sapere della nostra vita: Ettore Scola, David Bowie, Alan Rickman, Umberto Eco. Uno dietro l’altro, dandoci a mala pena il tempo di tirare fiato, ognuno con un peso diverso, ma tutti a modo loro fondamentali.
E mi sono posta un interrogativo: ma… noi? Cosa saremo in grado di lasciare “noi”, generazioni internaute che hanno perso contatto ed interesse per la realtà, ai posteri? Insomma, siamo obiettivi: un gruppo di ottusi che tira fuori dall’acqua un povero delfino per fare delle foto e si stupisce pure che alla fine sia morto, cosa può insegnare di buono al mondo?
Forse è davvero questo, il problema. Più serio di quanto si pensi, peggiore di quanto ci si aspetti. E ce l’aveva già spiegato lui meglio di chiunque altro, con quel linguaggio chiaro e diretto che ci si aspettava sempre: “Cosa insegnamo ai nostri contemporanei? Che la morte si consuma lontano da noi in ospedale, che di solito non si segue più il feretro al cimitero, che i morti non li vediamo più. O meglio, ne vediamo continuamente, che schizzano brandelli di cervello sui finestrini dei taxi, saltano in aria, si sfracellano sui marciapiedi, cadono in fondo al mare coi piedi un cubo di cemento, lascian rotolare sul selciato la loro testa – ma non siamo noi o i nostri cari, sono gli attori”. La morte ha ormai perso di valore, ha perso di credibilità perché tanto la si affronta attraverso lo schermo della tv, del cellulare, del tablet, e ha deciso di nascondersi perché in troppi ne parlano (per lo più a caso): si sente ridicola.
Ora la mia paura è proprio questa: che ancora una volta ci sarà la solita mercificazione di qualcuno che se n’è andato solo perché famoso. Perché è così che va ogni volta, basta davvero solamente aprire i social: tutti che scrivono sue citazioni, che lo ricordano con mille emoticon, che lo elogiano e lo esaltano conoscendo solo un titolo –sì, lo sappiamo tutti: “Il nome della rosa”- e aggiungendo: “Se ne vanno sempre i migliori!”. Perché è così che funziona pur di acchiappare qualche “mi piace”, che tanto hanno già di gran lunga soppiantato un sano (e raro) complimento verbale. L’imperativo oggi è: fa’ vedere che ci sei, a prescindere.
Scusali, Umberto, e ridici su. Lo sai, sono una “legione di imbecilli”. Grazie di tutto, sarai l’Eco più forte del mondo.